“Ferite a Morte” è nato come un progetto teatrale sul femminicidio scritto e diretto da Serena Dandini. Un’ antologia di monologhi sulla falsariga della famosa Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master costruita con la collaborazione di Maura Misiti, ricercatrice del CNR. I testi attingono alla cronaca e alle indagini giornalistiche per dare voce alle donne che hanno perso la vita per mano di un marito, un compagno, un amante o un “ex”.
Presentato prima in forma di lettura-evento, ha visto numerose donne illustri e note al grande pubblico facenti parte del mondo della cultura, dello spettacolo, della politica e della società civile, dare voce a un immaginario racconto postumo delle vittime, creando un’occasione di riflessione e di coinvolgimento dell’opinione pubblica, dei media e delle istituzioni.
“Tutti i monologhi di “Ferite a morte” – spiega Serena Dandini – ci parlano dei delitti annunciati, degli omicidi di donne da parte degli uomini che avrebbero dovuto amarle e proteggerle. Non a caso i colpevoli sono spesso mariti, fidanzati o ex, una strage familiare che, con un’impressionante cadenza, continua tristemente a riempire le pagine della nostra cronaca quotidiana. Dietro le persiane chiuse delle case italiane si nasconde una sofferenza silenziosa e l’omicidio è solo la punta di un iceberg di un percorso di soprusi e dolore che risponde al nome di violenza domestica. Per questo pensiamo che non bisogna smettere di parlarne e cercare, anche attraverso il teatro, di sensibilizzare il più possibile l’opinione pubblica”.
Dal 2013 “Ferite a morte” ha preso due strade: un tour internazionale “permanente”, che vede nella veste di lettrici degli spoon personalità femminili tra le più in vista dei Paesi che ospitano l’evento in tutto il mondo, in collaborazione con le istituzioni governative locali; un tour nazionale con una compagnia stabile composta da Lella Costa, Orsetta de Rossi, Giorgia Cardaci (fino al 2015), Rita Pelusio.
La scena teatrale è sobria: un grande schermo manda filmati ed immagini evocative.
Donne in bianco e nero, belle come attrici di Hollywood o di Cinecittà, sul cui volto si mescolano rose, uccelli, farfalle, aerei. Figurine femminili di ginnaste, contorsioniste e ballerine, solitarie, in equilibrio, colte nel culmine della tensione dell’esercizio o nel rilassamento. E’ il mondo di Rossella Fumasoni, artista romana che ha prestato la sua opera e i suoi personaggi dipinti per accompagnare la ‘spoon river’ di Serena Dandini e dare un volto, simbolico, alle voci delle donne vittime di femminicidio.
Rossella Fumasoni è pittrice e scrittrice, espone dal 1994 sia in Italia che all’estero.
Gli oggetti che hanno caratterizzato la tragica avventura delle protagoniste delle storie sono lì ad accompagnarle nei ricordi così come la musica che ne sottolinea gli stati emotivi.
Le attrici si alternano sul palco usando un linguaggio poliforme: un contrappunto emotivo, ora drammatico ora leggero, che usa i toni ironici e grotteschi propri della scrittura di Serena Dandini.
Lella Costa, artista tra le più lucide, appassionate, socialmente consapevoli e impegnate delle nostre scene, tre attrici attive in campo televisivo, cinematografico e teatrale.
Orsetta de Rossi, dopo il debutto nella Tv delle ragazze, ha preso parte a “Tutti pazzi per amore” e “I Cesaroni” e, al cinema, a “La seconda volta” di Mimmo Calopresti, “Matrimoni” di Cristina Comencini e “L’amore è eterno finché dura” di Carlo Verdone.
Rita Pelusio ha studiato mimo e clownerie e ha preso parte alle produzioni televisive “Markette” e “Colorado Café”, mentre in teatro ha lavorato con Natalino Balasso. Nel 2006 ha vinto il Premio Massimo Troisi come miglior attrice comica.
Ogni replica offre la possibilità di ospitare sul palco a leggere uno spoon donne in rappresentanza della società civile nel territorio di rappresentazione.
Tutti gli eventi teatrali di “Ferite a morte” sono stati occasione di sostegno alla rete D.i.Re, che accorpa tutti i centri antiviolenza in Italia, e alla Convenzione NO MORE! che chiede al Governo e alle istituzioni italiane di discutere urgentemente le proposte in materia di prevenzione, contrasto e protezione delle donne dalla violenza maschile.
“Ferite a morte” è un libro edito da Rizzoli. Il volume raccoglie tutti i testi prodotti per il palcoscenico ed è arricchito da una sezione dedicata alla descrizione del fenomeno del femminicidio, particolarmente curata da Maura Misiti.
“Ferite a morte” è un blog che raccoglie e diffonde notizie sul tema della violenza alle donne, informazioni sui centri di accoglienza, segnalazioni di progetti messi in atto dai sostenitori per avviare buone pratiche in materia, storie, appuntamenti, iniziative nate sulla scia dei testi di Serena Dandini. Al blog sono associati una pagina Facebook e un profilo Twitter, utili da un lato a rendere virale la diffusione dei contenuti, dall’altro a concentrare in quel luogo virtuale una comunità di uomini e donne uniti dalla necessità e dall’urgenza di questa battaglia di civiltà.
Non riesco quasi più a parlare di violenza sessuale, stupro, femminicidio. Non riesco più a guardare immagini di donne picchiate, stuprate, uccise. Sto male, sto fisicamente male, perché mi viene spontaneo immedesimarmi ed è come se sentissi su di me la violenza. Come se le cose che leggo o vedo fossero successe a me, sento il dolore fisico di un pugno, di un coltello che si infila nella carne, di una corda stretta al collo che mi soffoca. Non ce la faccio più!
Eppure so che non si può tacere, al contrario, bisogna parlarne sempre più se si vuole che questo fenomeno, sempre più in aumento, venga capito fino in fondo, venga respinto, stroncato. Se si vuole cambiare la mentalità da cui nasce e si sviluppa. La cultura dello stupro è basata sul potere dell’uomo sulla donna. Fino a quando non riusciremo a smantellare questo concetto, non penso che potremo mettere fine a questa atrocità.
La maggioranza degli stupri avviene tra le pareti domestiche, non come si pensa troppo spesso, ad opera di sconosciuti, o come si vuole far credere per meri e sporchi interessi politici, al fenomeno dell’immigrazione. Non lasciamoci ingannare da chi vuole ulteriormente strumentalizzare questa efferatezza per il proprio tornaconto. Uno stupro è uno stupro!, non importa se chi lo commette è nero, bianco, giallo o rosso! Non v’è differenza alcuna, è il frutto di una “forma mentis” che caratterizza tutte le popolazioni del mondo.
E, comunque, è nella famiglia stessa che si perpetua da secoli questa mentalità becera sulle donne.
Uno stupro ha veramente poco a che fare con la passione e la sessualità, è bensì un atto pseudo-sessuale dovuto ad ostilità, collera e controllo che dimostra solo un fondamentale bisogno di dominanza e forza. La vittima diventa un oggetto senza significato: la donna diventa il contenitore di tutte quelle emozioni negative di cui l’assalitore vuole sbarazzarsi, come se si trattasse di un’“infezione psichica”. A muovere lo stupratore sono la pretesa di essere come Dio, il Sé grandioso, la mancanza di empatia.
Quanto ancora le donne dovranno essere un “sacrifico” umano sull’altare dell’ uomo che deve dimostrare con la forza la propria superiorità di genere? Siamo solo una “categoria”, così come lo sono i bambini, violentati, stuprati, negati, non persone, non esseri umani, solo fragili oggetti da usare a proprio piacimento.
Certo non dovremo stancarci o smettere di batterci per smantellare questo convincimento, ma io la speranza un po’ l’ho persa, non sono bastati secoli, non sono bastate lotte di milioni di donne in tutto il mondo, che seppure siano servite alla conquista di diritti civili spesso negati, non sono riuscite a sgretolare neanche un solo sassolino dal macigno che rappresenta una mentalità gretta e pericolosa … vedo tutto molto, molto lontano. Anche riuscendo, come madri, a crescere i figli maschi senza che in loro si sviluppi un senso di predominio nei confronti delle donne, e non so come, perché non servono discorsi quando poi si dimostra il contrario con i comportamenti che si tengono, anche riuscendoci, quante generazioni dovranno passare? Tante, tantissime, troppe!
Nonostante la mia speranza si sia un poco affievolita, ho scelto, comunque, di parlarne, altrimenti mi sembrerebbe di arrendermi prima di aver combattuto, di non fare la mia parte. Ma ho scelto di parlarne in questo modo, senza immagini scabrose, che mi colpiscono e mi fanno star male, non per negare la realtà delle cose, ma perché a volte colpisce di più di una immagine che, per quanto drammatica, si cancella velocemente e scompare in un attimo. Un video, uno spezzone di “teatro” che racconta, che lo fa utilizzando toni ironici e grotteschi, che ci fanno anche ridere, ma che, proprio per questo, restano spesso più impressi nella mente e ci danno modo di riflettere.
E nella riflessione, amiche mie, sorelle, donne, non dite mai “se l’è cercata”, pensate a quanto sono orribili queste parole, nessuna donna, per qualsivoglia comportamento possa tenere, va a cercarsi la violenza. Nessun uomo ha il diritto di praticarla, per nessun motivo al mondo!
Quando pronunciate questa terribile frase, pensate che quella donna avrebbe potuto essere vostra figlia, vostra sorella, vostra madre, voi stesse.
Ogni donna violata sono io, cominciamo tutte a sentirci coinvolte, a condividere, ad essere unite. Non facciamo il gioco di chi vuole renderci deboli, sempre più fragili, per poterci annientare e sopraffare, perpetuando noi stesse questa becera cultura. Non disperdiamo la nostra forza, la nostra grande sensibilità, la nostra capacità di combattere, abbiamo tante altre cose da dire, usciamo dal silenzio per dire cose migliori di questa. Spieghiamo, invece, al mondo che siamo in grado di trasformare in sfida, vincendola, la grande gioia di essere donne.
E’ morto l’attore e regista Franco Mescolini, recitò con Benigni e altri grandi
Attore, regista e drammaturgo dalla lunga carriera sia in radio, in tivù cinema e teatro, senza dimenticare le strade e le piazze che lui ha sempre amato molto
Elisabetta Boninsegna Cesenatoday
12 aprile 2017
Questa mattina, mercoledì, all’ospedale Bufalini, è morto Franco Mescolini a seguito di una complicanza intervenuta dopo un’operazione chirurgica. Avrebbe compiuto 73 anni il 26 luglio prossimo. Attore, regista e drammaturgo dalla lunga carriera sia in radio, in tivù cinema e teatro, senza dimenticare le strade e le piazze che lui ha sempre amato molto. Franco Mescolini ha segnato molte generazioni di cesenati, indicando come si insegna ai figli non solo a stare su un palco ma anche a vivere, a ridere e a vedere l’aspetto magico della vita.
A Cesena aveva messo in piedi la compagnia “La Bottega del teatro” con cui ha portato in giro moltissimi spettacoli indimenticabili, primi tra tutti Shakespeare e Dante in dialetto. Ma Franco Mescolini è stato attore di cinema, prima di tutto. Un po’ di anni fa di lui Tullio Kezich scrisse: “Franco Mescolini, il vitellone giocatore di carte di Sabato Italiano. Se ce lo vedono a Hollywood ce lo portano via subito”. Ha lavorato con registi come Gigi Proietti, Maurizio Scaparro, Ugo Gregoretti, Mario Monicelli. Da giovane ha frequentato il Dams a Bologna sebbene il padre non volesse. Mentre studiava un professore lo chiamò in un gruppo teatrale e da lì è iniziata la sua carriera. Lo notarono e gli chiesero di fare un provino con dei funzionari Rai a Torino per recitare negli sceneggiati tivù. Ha vissuto per trent’anni a Roma, lavorando nel settore della tivù e della radio, non dimenticando mai la sua Cesena.
Poi c’è stato l’incontro con Roberto Benigni col quale si è trovato subito bene. Nel suo film “Il Mostro” era proprio Franco Mescolini il mostro. E anche ne “La vita è bella” aveva una particina, sebbene il suo compito più importante fosse dietro le scene, ovvero restare con il bambino quando non girava il film. L’ultimo film è stato girato qualche anno fa, “Tempo instabile con probabili schiarite” con Lillo e Greg. L’anno scorso era stato anche pubblicato un libro su di lui, edito da “Il Ponte Vecchio” scritto da Daniela Placido dal titolo “Franco Mescolini. Uomo, maestro, giullare”.
I MESSAGGI DI CORDOGLIO – Moltissimi i messaggi di cordoglio e amicizia vera e profonda apparsi da mercoledì mattina sulla sua pagina facebook. Tra questi anche quello di Barbara Abbondanza, attrice televisiva che ha iniziato a recitare con lui. “Tu mi hai insegnato a parlare con la luna, tu mi ci hai portato con sapiente maestrìa e da lassù abbiamo guardato il mondo certe notti d’estate. Con te ho iniziato il mio vero grande viaggio della vita sui sentieri dei sogni … se sono quella che sono oggi lo devo anche a te. Tu parti, ma per me sarai sempre il mio faro nella notte, la stella che guida ogni mia rotta su sentieri che abbiano un cuore. Buon viaggio mio amato Franco Mescolini … e quando sarai arrivato mangiati un bel bignè! Ci mancherai tanto…”
“Franco – ricordano il sindaco Paolo Lucchi e l’assessore alla Cultura, Cristian Castorri – ha occupato un posto speciale nella storia recente del Bonci e in generale del teatro a Cesena. E ci piace ricordare soprattutto il suo impegno di straordinario animatore culturale – portato avanti anche in Consiglio comunale, di cui ha fatto parte fra il 1979 e il 1980, subentrando ad Alberto Sughi – e il ruolo di generoso maestro, che ha svolto fin dai lontani anni Settanta, attraverso i corsi, le scuole, le attività promosse in città, nei quartieri, nella sede della sua Bottega, rivolgendosi sia ai professionisti, o ai futuri professionisti, sia agli appassionati, a tutti coloro che amando il teatro hanno desiderato imparare ad usarne gli strumenti”.
“Ma Franco è stato anche un grande motivatore: le sue appassionate “arringhe” a favore del teatro di sempre, della sua funzione culturale e didattica, sono indimenticabili – proseguono Lucchi e Castorri -. Senza dimenticare la sua opera di autore e interprete che lo ha portato a partecipare, nel teatro e nel cinema, a produzioni di grande importanza, ma soprattutto a essere egli stesso produttore di numerosi spettacoli, giocati su registri diversi e rivolti a diversi tipi di pubblico. Preziosa la collaborazione con il Bonci, portata avanti fin dai tempi del suo debutto e, in particolare, l’instancabile lavoro svolto dagli anni Ottanta ad oggi per far crescere la Stagione di Teatro ragazzi e garantirle quella ricchezza di contenuti e di idee che la rendono apprezzata e seguita. Con Mescolini se ne va un protagonista della cultura cesenate, e oggi siamo tutti un po’ più poveri”.
Buon viaggio, mio amato Maestro, un pezzo del mio cuore oggi viene con te, in quell’altrove teatrale del quale nei tuoi spettacoli parlavi sempre. Ho imparato tanto alla tua “scuola”, soprattutto a scavare nella mia anima e tirar fuori quello che di più nascosto vi si celava, trasformandolo in emozioni da trasmettere attraverso altre vite che solo in scena si possono vivere. Il teatro è magico, Maestro, tu mi hai insegnato ad usarlo, a farne mie le tecniche, ma tu mi hai insegnato soprattutto la magia della vita, mi hai insegnato ad apprezzarla, a vederne gli aspetti positivi anche quando tutto per me era nero, mi hai trasmesso l’allegria, la fiducia e il coraggio, in un momento particolare della mia vita, di affrontare la mia disperazione e trasformarla … in vita! Hai segnato un pezzo importante di questa mia vita, arricchendola di esperienze indimenticabili. Oggi tu hai iniziato questo viaggio, io lo sento come una grande perdita, ma allo stesso tempo i ricordi che riaffiorano in me intensamente mi fanno anche sentire più ricca, perché ho la fortuna di averli, di aver condiviso con te anche solo un piccolo pezzo della mia strada. Buon viaggio, Franco, so che al tuo arrivo, ad attenderti, ci sarà una platea stracolma e che l’applauso risuonerà inarrestabile fin nei più piccoli meandri di quel grande teatro pronto ad accoglierti. Il mio grande affetto e rispetto per te, chapeau Maestro!
“Per coloro che non sono capaci di credere, ci sono i riti; per coloro che non sono capaci di ispirare rispetto da sé, c’è l’etichetta; per coloro che non sanno vestirsi, c’è la moda; per coloro che non sanno creare, ci sono le convenzioni e i cliché. Ecco perché i burocrati amano i cerimoniali, i preti i riti, i piccoli borghesi le convenzioni sociali, i bellimbusti la moda, e gli attori le convenzioni teatrali, gli stereotipi e un intero rituale di azioni sceniche.”
“Noi protestammo contro la vecchia tecnica della recitazione, contro il falso patos, la declamazione, contro gli eccessi personali degli attori, contro la cattiva consuetudine della messa in scena, contro il criterio del primo attore che nuoceva al complesso, contro tutta la corruzione degli spettacoli, contro il repertorio scadente dei teatri d’allora. Nella nostra rivoluzione, in nome di un rinnovamento del teatro, noi dichiarammo guerra ad ogni convenzionalismo”. Così scrive Stanislavskij ricordando la fondazione del Teatro d’Arte di Mosca nel 1897
“Il mio scopo non è insegnarvi a recitare, il mio scopo è aiutarvi a creare un uomo vivo da voi stessi. Il materiale per crearlo dovete prenderlo da voi stessi, dalle vostre memorie emotive, dalle esperienze da voi vissute nella realtà, dai vostri desideri e impulsi, da elementi interni analoghi alle emozioni, ai desideri e ai vari elementi del personaggio che impersonate”.
“Il testo verbale di un’opera drammatica, tanto più è geniale, tanto più appare l’espressione di sentimenti e pensieri dello scrittore e degli eroi del suo dramma. Sotto ogni parola del testo si nasconde un sentimento ed un pensiero che l’hanno originata e la giustificano. Le parole in sé sono vuote come noci senza gheriglio, sono concetti senza contenuto, inutili anzi nocivi”.
“Il Sistema non è un manuale di consultazione, è tutta una cultura, sulla quale bisogna crescere e formarsi per anni. Non serve sgobbare, bisogna assimilarla, in modo che entri nella carne e nel sangue, che diventi una seconda natura.”
Ad un’attrice che gli chiese chiarimenti sul personaggio di Ofelia, Stanislavskij rispose “Non è ancora giunto il momento di parlare di ciò che è Ofelia. Mostri prima quel che lei stessa è in quella parte, e allora le si dirà quel che deve essere la sua Ofelia”. Ciò che il regista voleva intendere era che l’attrice in questione non doveva “fare come se fosse Ofelia” ma si sarebbe dovuta domandare “se io fossi nelle condizioni di Ofelia, cosa farei?”. Il che è completamente diverso.
“Imparate ad amare l’arte in voi stessi, e non voi stessi nell’arte.”
Roberto Herlitzka: fare l’attore è un gioco faticoso
di Roberto Zichittella *****
Il grande attore è tornato al cinema nel film “Io, Arlecchino” di Giorgio Pasotti.
Non ti aspetti di vedere Roberto Herlitzka nei panni di Arlecchino, con il contorno di frizzi, lazzi e parlata dialettale che caratterizzano la celebre maschera della Commedia dell’Arte. L’insolito travestimento accade in Io, Arlecchino, un film di Matteo Bini e Giorgio Pasotti. Herlitzka interpreta Giovanni, un attore gravemente malato che fino all’ultimo non rinuncia a recitare. Questa abnegazione lascia il segno nel figlio Paolo (Giorgio Pasotti), che riuscirà così a dare una svolta alla sua vita.
Nella sua casa romana, Hertlitzka confida: «Sono stato contentissimo della proposta di Pasotti, perché non mi sarei mai immaginato di interpretare Arlecchino. La Commedia dell’Arte è un genere che non ho mai praticato, lontano dai miei interessi artistici. Invece mi sono divertito molto».
Un cognome di origine morava (antenati di Brno), torinese, 77 anni, sposato dal 1968 con l’attrice Chiara Cajoli, Herlitzka ha modi infinitamente cortesi e un volto che pare intagliato nel legno. Difficile immaginarlo in ruoli divertenti o comunque eccentrici, eppure fra cinema e teatro Herlitzka ha vestito anche i panni di una vecchia donna nazista, di un un uomo anziano che avrebbe sempre voluto essere donna, del cardinale gourmet inLa grande bellezza. In un prossimo film di Marco Bellocchio, Herlitzka impersonerà un vampiro («però non mi vedrete con i dentoni», precisa) e non va dimenticata la sua partecipazione alla serie televisiva Boris. In inglese e in francese recitare è sinonimo di giocare. Anche per lei il lavoro di attore è un gioco?
«Direi di sì, ma è un gioco estremamente impegnativo. Se uno non si diverte a fare l’attore è meglio che smetta, se no diventa un supplizio. Fare l’attore è divertimento, ma bisogna faticare molto per conquistarsi il diritto di giocare».
Questo glielo ha insegnato Orazio Costa, il suo maestro all’Accademica d’Arte Drammatica?
«Senza di lui non mi sarei reso conto di quanto sia difficile recitare bene. Forse avrei avuto come modelli dei bravissimi attori, però incapaci di comprendere fino in fondo quello che fanno. Il che non è obbligatorio, ci sono grandi attori che non capiscono nulla e forse proprio per questo sono bravi attori. Ma Costa mi ha fatto capire quale montagna bisogna scalare per arrivare a fare veramente qualcosa».
Come ha deciso di fare l’attore?
«Da ragazzo a Torino vidi un’operina del Settecento, non ricordo di chi. Alla fine gli artisti in costume uscirono a ringraziare il pubblico. In quel momento decisi che avrei fatto l’attore. Tra l’altro in teatro io le luci non le cerco, anzi le fuggo, e sono sempre un po’ imbarazzato con i ringraziamenti, ma mi piacque quella situazione».
La passione per la musica le è rimasta. Lei frequenta i concerti dell’Accademia di Santa Cecilia e in questa stanza c’è un pianoforte. Lo suona spesso?
«Studiavo il piano privatamente, poi ho smesso. L’ho suonato per conto mio leggendo molto male soprattutto le Sonate di Mozart, che sono le più facili da leggere, ma non da suonare».
Le piacerebbe interpretare un musicista famoso?
«Oh sì. Il più fascinoso dal punto di vista umano è Chopin, ma morì giovane e ormai sono fuori età. Mi piacerebbe interpretare un film dove faccio il pianista. In parte, l’ho già fatto in Aria, un film poco noto. Mi dava grande soddisfazione vedermi e sentirmi suonare così bene, anche se ovviamente il suono veniva da un vero pianista».
Gran parte del pubblico la ricorda per il ruolo di Aldo Moro in “Buongiorno, notte” di Bellocchio. Le pesa essere identificato soprattutto con un personaggio?
«Beh, per noi attori non è l’ideale, ma non posso certo lamentarmi. Quello di Moro era un grande personaggio, l’ho fatto bene, il film è stato consacrato, ho avuto tutti i premi possibili. Però mi piacerebbe essere ricordato anche per Il rosso e il blu di Giuseppe Piccioni e Marianna Ucrìa di Roberto Faenza. Ho fatto film dove sono l’assoluto protagonista, girati da registi alle prime o alle ultime armi e non sostenuti dalla distribuzione, che purtroppo non ha visto quasi nessuno». Si riconosce un carattere schivo?
«Lo so, certamente sono una persona schiva, purtroppo». Perché dice purtroppo?
«Perché nel nostro lavoro essere schivi porta molto rispetto, ma niente altro. Invece conta la capacità di relazionarsi, di intrufolarsi dappertutto, ma quello mi manca. So anche di avere la nomea di attore rigoroso e drammatico, ma in realtà se c’è da far ridere il pubblico io ci riesco benissimo, anche facendo Shakespeare».
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