In questa notte silenziosa di Ferragosto, in cui affiorano i ricordi di tante magiche estati della mia giovinezza, dei palcoscenici, della musica, degli spettacoli, degli artisti che per tanti anni mi hanno accompagnato, voglio salutare Lucio, che sta cantando tra le stelle del cielo, una stella luminosa sopra il mare.
Lucio per me, come per tanti, non è mai morto: è rimasto come un’ombra bassa che gira la sua Bologna, tra piazza Grande e Via Indipendenza, che naviga il suo mare che amava tanto.
A morire proprio non pensava, e chi lo fa del resto? Sembrava eterno, con quei suoi occhi da Elfo che sembravano guardarti dentro e sorridere di ciò che vedevano. Un uomo fiero, ironico, molto emiliano.
Era una giornata di sole, a Bologna, quella che accolse la notizia della morte del suo figlio più celebre: Lucio Dalla. Impensabile, inconcepibile per tutta l’Italia che amava l’uomo che aveva scritto pezzi immortali come “Caruso”, “L’anno che verrà” o ancora “4 marzo 1943”, prendere coscienza del fatto che non lo avrebbe più visto su un palcoscenico. Un artista che ha segnato in modo profondo e indelebile il nostro tempo! Un grande artista, la sua ironia e la sua genialità mancheranno sempre a tutti coloro che l’hanno conosciuto.
Lucio Dalla è stato una delle persone più libere fra quelle che hanno fatto canzoni nella nostra storia. Era libero di seguire tutti i doni che gli sono stati fatti. Prima di tutto quello di una musicalità che gli usciva da ogni poro. Bastava che posasse le mani su un pianoforte o soffiasse su un sax o un clarinetto e ne usciva subito Musica, con la emme maiuscola. Poi la sua voce che, naturalmente, era così piena di Musica che tante volte era costretto a inventare linguaggi e suoni perché la lingua italiana non gli bastava. E le parole, quando ha cominciato a scriverle, sono sempre state piene di malinconia, meraviglia, ironia, gioco, stupore. E tutto è sempre stato all’insegna di un’enorme, instancabile vitalità.
Caro Lucio, hai accompagnato tanti anni della mia vita, ti ammiravo per la tua genialità, per il tuo estro, per i tuoi eccessi e le tue pazzie, ma soprattutto per la tua arte che non conosceva recinti e riusciva a spiazzarmi e a stupirmi ad ogni nuova idea, ad ogni nuova canzone, che per me era poesia. Te ne sei andato come avresti voluto, tra un concerto appena finito ed un altro da incominciare e adesso che sei un angelo, come ci promettevi in una canzone, sono certa che stai volando libero e parli con Dio a modo tuo …
“Per coloro che non sono capaci di credere, ci sono i riti; per coloro che non sono capaci di ispirare rispetto da sé, c’è l’etichetta; per coloro che non sanno vestirsi, c’è la moda; per coloro che non sanno creare, ci sono le convenzioni e i cliché. Ecco perché i burocrati amano i cerimoniali, i preti i riti, i piccoli borghesi le convenzioni sociali, i bellimbusti la moda, e gli attori le convenzioni teatrali, gli stereotipi e un intero rituale di azioni sceniche.”
“Noi protestammo contro la vecchia tecnica della recitazione, contro il falso patos, la declamazione, contro gli eccessi personali degli attori, contro la cattiva consuetudine della messa in scena, contro il criterio del primo attore che nuoceva al complesso, contro tutta la corruzione degli spettacoli, contro il repertorio scadente dei teatri d’allora. Nella nostra rivoluzione, in nome di un rinnovamento del teatro, noi dichiarammo guerra ad ogni convenzionalismo”. Così scrive Stanislavskij ricordando la fondazione del Teatro d’Arte di Mosca nel 1897
“Il mio scopo non è insegnarvi a recitare, il mio scopo è aiutarvi a creare un uomo vivo da voi stessi. Il materiale per crearlo dovete prenderlo da voi stessi, dalle vostre memorie emotive, dalle esperienze da voi vissute nella realtà, dai vostri desideri e impulsi, da elementi interni analoghi alle emozioni, ai desideri e ai vari elementi del personaggio che impersonate”.
“Il testo verbale di un’opera drammatica, tanto più è geniale, tanto più appare l’espressione di sentimenti e pensieri dello scrittore e degli eroi del suo dramma. Sotto ogni parola del testo si nasconde un sentimento ed un pensiero che l’hanno originata e la giustificano. Le parole in sé sono vuote come noci senza gheriglio, sono concetti senza contenuto, inutili anzi nocivi”.
“Il Sistema non è un manuale di consultazione, è tutta una cultura, sulla quale bisogna crescere e formarsi per anni. Non serve sgobbare, bisogna assimilarla, in modo che entri nella carne e nel sangue, che diventi una seconda natura.”
Ad un’attrice che gli chiese chiarimenti sul personaggio di Ofelia, Stanislavskij rispose “Non è ancora giunto il momento di parlare di ciò che è Ofelia. Mostri prima quel che lei stessa è in quella parte, e allora le si dirà quel che deve essere la sua Ofelia”. Ciò che il regista voleva intendere era che l’attrice in questione non doveva “fare come se fosse Ofelia” ma si sarebbe dovuta domandare “se io fossi nelle condizioni di Ofelia, cosa farei?”. Il che è completamente diverso.
“Imparate ad amare l’arte in voi stessi, e non voi stessi nell’arte.”
Roberto Herlitzka: fare l’attore è un gioco faticoso
di Roberto Zichittella *****
Il grande attore è tornato al cinema nel film “Io, Arlecchino” di Giorgio Pasotti.
Non ti aspetti di vedere Roberto Herlitzka nei panni di Arlecchino, con il contorno di frizzi, lazzi e parlata dialettale che caratterizzano la celebre maschera della Commedia dell’Arte. L’insolito travestimento accade in Io, Arlecchino, un film di Matteo Bini e Giorgio Pasotti. Herlitzka interpreta Giovanni, un attore gravemente malato che fino all’ultimo non rinuncia a recitare. Questa abnegazione lascia il segno nel figlio Paolo (Giorgio Pasotti), che riuscirà così a dare una svolta alla sua vita.
Nella sua casa romana, Hertlitzka confida: «Sono stato contentissimo della proposta di Pasotti, perché non mi sarei mai immaginato di interpretare Arlecchino. La Commedia dell’Arte è un genere che non ho mai praticato, lontano dai miei interessi artistici. Invece mi sono divertito molto».
Un cognome di origine morava (antenati di Brno), torinese, 77 anni, sposato dal 1968 con l’attrice Chiara Cajoli, Herlitzka ha modi infinitamente cortesi e un volto che pare intagliato nel legno. Difficile immaginarlo in ruoli divertenti o comunque eccentrici, eppure fra cinema e teatro Herlitzka ha vestito anche i panni di una vecchia donna nazista, di un un uomo anziano che avrebbe sempre voluto essere donna, del cardinale gourmet inLa grande bellezza. In un prossimo film di Marco Bellocchio, Herlitzka impersonerà un vampiro («però non mi vedrete con i dentoni», precisa) e non va dimenticata la sua partecipazione alla serie televisiva Boris. In inglese e in francese recitare è sinonimo di giocare. Anche per lei il lavoro di attore è un gioco?
«Direi di sì, ma è un gioco estremamente impegnativo. Se uno non si diverte a fare l’attore è meglio che smetta, se no diventa un supplizio. Fare l’attore è divertimento, ma bisogna faticare molto per conquistarsi il diritto di giocare».
Questo glielo ha insegnato Orazio Costa, il suo maestro all’Accademica d’Arte Drammatica?
«Senza di lui non mi sarei reso conto di quanto sia difficile recitare bene. Forse avrei avuto come modelli dei bravissimi attori, però incapaci di comprendere fino in fondo quello che fanno. Il che non è obbligatorio, ci sono grandi attori che non capiscono nulla e forse proprio per questo sono bravi attori. Ma Costa mi ha fatto capire quale montagna bisogna scalare per arrivare a fare veramente qualcosa».
Come ha deciso di fare l’attore?
«Da ragazzo a Torino vidi un’operina del Settecento, non ricordo di chi. Alla fine gli artisti in costume uscirono a ringraziare il pubblico. In quel momento decisi che avrei fatto l’attore. Tra l’altro in teatro io le luci non le cerco, anzi le fuggo, e sono sempre un po’ imbarazzato con i ringraziamenti, ma mi piacque quella situazione».
La passione per la musica le è rimasta. Lei frequenta i concerti dell’Accademia di Santa Cecilia e in questa stanza c’è un pianoforte. Lo suona spesso?
«Studiavo il piano privatamente, poi ho smesso. L’ho suonato per conto mio leggendo molto male soprattutto le Sonate di Mozart, che sono le più facili da leggere, ma non da suonare».
Le piacerebbe interpretare un musicista famoso?
«Oh sì. Il più fascinoso dal punto di vista umano è Chopin, ma morì giovane e ormai sono fuori età. Mi piacerebbe interpretare un film dove faccio il pianista. In parte, l’ho già fatto in Aria, un film poco noto. Mi dava grande soddisfazione vedermi e sentirmi suonare così bene, anche se ovviamente il suono veniva da un vero pianista».
Gran parte del pubblico la ricorda per il ruolo di Aldo Moro in “Buongiorno, notte” di Bellocchio. Le pesa essere identificato soprattutto con un personaggio?
«Beh, per noi attori non è l’ideale, ma non posso certo lamentarmi. Quello di Moro era un grande personaggio, l’ho fatto bene, il film è stato consacrato, ho avuto tutti i premi possibili. Però mi piacerebbe essere ricordato anche per Il rosso e il blu di Giuseppe Piccioni e Marianna Ucrìa di Roberto Faenza. Ho fatto film dove sono l’assoluto protagonista, girati da registi alle prime o alle ultime armi e non sostenuti dalla distribuzione, che purtroppo non ha visto quasi nessuno». Si riconosce un carattere schivo?
«Lo so, certamente sono una persona schiva, purtroppo». Perché dice purtroppo?
«Perché nel nostro lavoro essere schivi porta molto rispetto, ma niente altro. Invece conta la capacità di relazionarsi, di intrufolarsi dappertutto, ma quello mi manca. So anche di avere la nomea di attore rigoroso e drammatico, ma in realtà se c’è da far ridere il pubblico io ci riesco benissimo, anche facendo Shakespeare».
Il 4 luglio l’attrice astigiana porta in scena “L’ultimo giorno di sole”, lo spettacolo scritto per lei con cui Faletti ha chiuso la sua carriera e la sua vita. «Lo sento qui accanto a me in ogni momento»
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Chiara Buratti sorride, mentre Giorgio Faletti è impegnato ai fornelli. «Quella foto è stata scattata nella sua casa all’isola d’Elba, dove lui mi aveva invitata per provare lo spettacolo», racconta l’attrice, cantante e conduttrice televisiva. «Ricordo che non ho praticamente visto il mare perché siamo rimasti quasi sempre chiusi a lavorare. La foto lo ritrae mentre tenta un esperimento: cucinare degli spaghetti con cacao e tè al bergamotto. L’esperimento riuscì perché erano buonissimi, ma lui, da perfezionista qual era, non ne era del tutto soddisfatto». Al sorriso suscitato dal tenero ricordo si uniscono gli occhi che a stento trattengono le lacrime. «Non riesco a parlare di lui senza emozionarmi».
Il 4 luglio di un anno fa ci lasciava Giorgio Faletti. Per ricordarlo, proprio quel giorno nella sua Asti, al Teatro Alfieri, debutterà “L’ultimo giorno di sole”, lo spettacolo che lo scrittore scrisse, come un abito su misura per la sua amica Buratti. «Anch’io vivo ad Asti, che è una città piccola, dove ci si conosce tutti. Era facile incontrare Giorgio al mattino al mercato, dove faceva la spesa. Una volta lo invitai a un mio spettacolo. Alla fine si presentò in camerino e mi disse: “Ma perché non ho mai scritto niente per te?”. “Che bello, allora scrivi!”, gli risposi io. “Ma io ho già tutto nella testa”, replicò. Ed era davvero così».
“L’ultimo giorno di sole”, già uscito in Cd, racconta, alternando canzoni e monologhi, l’ultimo giorno prima della fine del mondo di una donna che riflette sul suo passato. «Giorgio aveva una forte componente femminile nella sua personalità: la sensibilità, l’introspezione, la delicatezza facevano parte di lui. Ma a differenza di altri uomini non le nascondeva».
Non si tratta affatto di uno spettacolo triste, perché Faletti «era un artista che giocava molto con i contrasti: corteggiava la malinconia per arrivare alla risata e nella morte vedeva la vita». La canzone “L’ultimo giorno di sole”, in particolare, si chiude con questi versi: “Si nasce, si cresce, si riesce, si giura, si nega. E infine impauriti per quello che è stato si prega”.
«Giorgio aveva già affrontato questi temi nella canzone “L’assurdo mestiere” che presentò a Sanremo nel 1995», spiega l’attrice. «Era una chiacchierata con Dio in cui si rivolgeva a Lui così: “Mentre decidi se sono buono o son cattivo, fa che la morte mi trovi vivo”. Aveva un rapporto molto particolare con Dio, cercava di ridurre le distanze, di sentirlo come un amico».
Fa effetto sentire queste parole sapendo ciò che è successo dopo che furono scritte. «Giorgio mi consegnò il testo la vigilia di Natale del 2013 e tre settimane dopo scoprì di avere un tumore. Io non credo che sia stato un caso.Tanto più che questa serenità verso la morte lui l’ha mantenuta davvero nei mesi successivi. Andò a curarsi negli Stati Uniti accompagnato da Roberta, sua moglie. Io li raggiunsi per qualche giorno in aprile. Mi portavano in giro per Los Angeles. Ogni tanto io e Roberta ci mettevamo a chiacchierare e lui, che arrancava un po’, ci richiamava: “Scusate, potete aspettarmi? Io avrei anche un tumore…”».
Faletti ha continuato a lavorare allo spettacolo fino alla fine: «L’ho visto l’ultima volta quando decise di tornare in Italia. In quel periodo stavo incidendo le canzoni a Milano. Lui non riusciva quasi più a muoversi però mi telefonava e mi diceva: “Domani vengo lì per vedere come va”».
Lo spettacolo si conclude con “Confessioni di un pianoforte”, in cui alla fine possiamo sentire per l’ultima volta Faletti cantare: «Ho suonato inseguendo l’estate e sfuggendo l’autunno e il suo vento. Come fosse il silenzio parola ed il suono un commento. Come fosse la musica un sogno e io il suo strumento».
«Credo che la musica sia stata il suo amore più grande», aggiunge la Buratti. «Non l’ho mai visto scrivere romanzi, ma solo comporre canzoni. Gli piaceva di più la musica forse perché era l’attività per cui era meno noto e lui amava tantissimo le sfide».
Per questo spettacolo Faletti avrebbe dovuto curare la regia.Chiediamo all’attrice se il 4 luglio gli sembrerà di vederlo seduto da qualche parte. «Io sento Giorgio sempre accanto a me. Stamattina stavo lavorando con Fausto Brizzi, mentre il computer diffondeva le canzoni. A un certo punto, senza una spiegazione, continuava a partire “L’ultimo giorno di sole”. Come un flash, mi è subito tornata alla mente una cosa che mi aveva raccontato Giorgio. Mentre componeva “Compagna di viaggio”, una canzone che ha inciso Mina, si bloccava sempre su un accordo. Mi disse: “Quando capita così, vuol dire che c’è qualcosa che non va”. Credo che stamattina Giorgio abbia voluto farmi sapere che anche da lassù lui mi segue e mi tiene per mano».
Fonte: famigliacristiana.it Martedì 30 Giugno 2015
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