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Troppo belle e “progressiste”: l’Isis minaccia le donne Tuareg   12 comments

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La loro avvenenza potrebbe diventare paradossalmente una minaccia. E su di loro incombe l’integralismo professato dall’Isis. Il viso delle donne della tribù dei Tuareg nel deserto del Sahara non è quasi mai coperto dal velo perché gli uomini “vogliono vedere i loro bellissimi volti”. A differenza di altre tribù di religione islamica, quella Tuareg è una società progressista che concede alle ragazze benefici che altre non hanno: possono infatti divorziare, e quando ciò si verifica – dal momento che le tende sono di proprietà della donna – l’ex marito deve cercare ospitalità presso parenti di sesso femminile (madre, sorelle). L’ascesa dell’Isis nel Sahara potrebbe però minacciare il loro stile di vita.

Fonte: repubblica.it
24 giugno 2015

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Le donne Tuareg sono le regine del Sahara

Portano il volto scoperto per mostrare la loro bellezza. Si sposano e divorziano quando vogliono. E sono le proprietarie dei beni più preziosi della loro tribù

Per secoli la tribù nomade dei Tuareg ha attraversato il deserto del Sahara, trasportando sale, datteri e zafferano verso sud, e schiavi e oro verso nord. I suoi membri divennero conosciuti come gli uomini blu del Sahara a causa del colore delle sciarpe che arrotolano intorno ai loro volti.

Oggi questa tribù nomade vive in un territorio che attraversa cinque Paesi africani: Mali, Algeria, Niger, Nigeria e Burkina Faso, e presenta una cultura molto moderna. I Tuareg sono musulmani ma, a differenza di altre società del mondo islamico, la loro cultura è particolarmente progressista per quanto riguarda il ruolo e l’emancipazione della donna.

Ad esempio, sono gli uomini, e non le donne, a coprire i loro volti. Quando la fotografa Henrietta Butler ha chiesto loro il perché, la risposta è stata molto semplice: “Vogliamo vedere i loro bellissimi visi.”

Libertà sessuale 

Prima che una donna Tuareg si sposi, è libera di avere tutti gli amanti che desidera. “Le ragazze hanno la stessa libertà dei maschi”, ha raccontato Butler. Esiste tuttavia un codice di condotta molto rigido al riguardo. L’uomo deve lasciare la tenda della donna tassativamente prima dell’alba, dal momento che la privacy è molto importante per la tribù nomade e questi incontri si svolgono con discrezione e rispetto.

Prima di sposarsi, inoltre, le donne vengono corteggiate dagli uomini con poesie scritte da loro stessi. Ma anche le ragazze – che imparano l’alfabeto dalle loro madri – scrivono poesie ai propri ammiratori. “Sia le donne che gli uomini sono molto romantici nelle loro composizioni”, ha raccontato Butler.

Matrimonio e divorzio 

Diversamente da ciò che accade in molte altre culture, le donne non perdono potere e indipendenza dopo il matrimonio. Visitando un campo Tuareg, si rischia di sottovalutare il ruolo delle donne della tribù, individuando come loro compiti solamente quelli di cucinare e prendersi cura dei bambini.

In realtà, sono le donne le proprietarie della tenda e degli animali. Gli animali, in particolare, rappresentano una risorsa di grande valore per questa tribù nomade. Il giornalista Peter Gwin ha riferito quanto gli venne raccontato da un anziano nomade: “Gli animali sono tutto per i Tuareg. Beviamo il loro latte, mangiamo la loro carne, usiamo la loro pelle, li commerciamo per ottenere ciò che ci serve. Quando gli animali muoiono, muoiono anche i Tuareg.”

Anche per quanto riguarda il divorzio, le tradizioni Tuareg sono molto moderne. Sono spesso le donne a decidere il divorzio, e la proprietà degli animali e delle tende rimane a loro. Solitamente anche i figli vengono affidati alla madre. Inoltre, grazie alla diffusione degli accordi pre-matrimoniali, è difficile che si verifichino liti tra gli ex-coniugi per la divisione del patrimonio.

Non c’è alcuna vergogna nel divorzio, e spesso viene organizzata una festa per celebrarlo, così che gli uomini sappiano che la donna è di nuovo disponibile.

Una società matriarcale? 

La società Tuareg, tuttavia, non si può definire matriarcale. Sono infatti gli uomini a prendere le decisioni politiche più importanti, anche se le donne vengono spesso consultate da figli e mariti. Secondo Butler, sono in realtà le donne stesse a controllare la politica della tribù, dietro le quinte.

L’albero genealogico viene registrato attraverso la linea materna e, per questo, tradizionalmente è l’uomo a entrare a far parte della famiglia della donna dopo il matrimonio, non il contrario. L’accento sulla linea materna è dovuto anche a una leggenda sulle origini dei Tuareg, secondo la quale le famiglie nobili della tribù discendono da Tin Hinan, la prima regina Tuareg, che nel IV secolo attraversò il deserto dal Marocco all’Algeria.

Inoltre, gli uomini lasciano i loro beni in eredità non ai propri figli, ma a quelli delle loro sorelle. Questo perché il legame genetico con i propri nipoti è assolutamente certo, a differenza di quello con i figli della propria compagna.

Ci sono altre tradizioni Tuareg particolari riguardo al rapporto uomo-donna. Per esempio, mangiare di fronte a una donna con la quale non si può avere una relazione sessuale oppure di fronte alle anziane è considerato un gesto molto maleducato da parte di un uomo. Il gesto più disonorevole è mangiare di fronte alla propria suocera.

I Tuareg sono inoltre famosi per le cerimonie di benvenuto con cui accolgono i viaggiatori che compaiono all’orizzonte. Non dimenticano mai di offrire acqua, e i loro ospiti vengono sempre “trattati come re”.

di Vittoria Vardanega
Fonte: thepostinternazionale.it

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TUAREG

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I nobili e fieri dominatori del Sahara corrono oggi il rischio di scomparire, schiacciati dalla civiltà moderna che sta cancellando la loro cultura secolare. Le lunghe carovane di un tempo sono sparite. Le piste del deserto sono percorse da fuoristrada carichi di turisti. Nell’Africa di oggi sembra non esserci spazio per un popolo di nomadi tenacemente attaccato alla propria indipendenza e diversità.

Attraversavano le sconfinate distese di sabbia trasportando oro, sale, spezie, stoffe e avorio. Si spostavano con cammelli e grosse mandrie di buoi alla perenne ricerca di sorgenti e corsi d’acqua. Riscuotevano tributi dai convogli dei mercanti in transito sulle “loro terre”. Godevano della fama di abili predatori e valorosi guerrieri (i francesi impiegarono trent’anni per piegarne l’indole belligerante).

Il celebre geografo arabo Ibn Battuta, già nel XV secolo, descrisse la loro straordinaria Civiltà della sabbia, fondata su un solido sistema di caste.

Il Sahara dei Tuareg, terra epica di esplorazioni e fughe celebrata in tanti film e libri di successo, non esiste più: le frontiere demarcate dalle potenze coloniali, ereditate negli anni ’60 dagli Stati africani indipendenti, hanno spezzato il deserto come un enorme mosaico.

I nomadi sono stati imbrigliati in una ragnatela di confini tracciati in modo arbitrario.

Le terribili siccità e carestie degli ultimi trent’anni hanno bruciato i loro pascoli, sterminato le greggi, messo in crisi la fragile economia pastorale.

I convogli dei camion hanno sostituito le lunghe carovane, il vento e la sabbia cancellato le antiche piste della transumanza.

Uno dopo l’altro sono crollati i tasselli sociali e i valori tradizionali su cui poggiava il secolare modello di vita dei nomadi. Per lungo tempo i Tuareg sono stati i signori incontrastati del deserto, l’unico popolo capace di adattarsi alle proibitive condizioni ambientali del “bahr belà mà”, l’immenso “mare senz’acqua”. Percorrevano senza sosta le vie carovaniere, tra il Maghreb e l’Africa nera, dominando il florido commercio transahariano.

Oggi i leggendari “uomini blu”, così chiamati per via del tipico turbante blu indaco che tinge anche la loro pelle, emblemi di libertà e fierezza, rischiano l’annientamento culturale.

Ne restano poco più di un milione, dispersi fra cinque stati: Niger, Mali, Libia, Algeria e Burkina Faso.

Pochi, neppure 100 mila, hanno mantenuto gli usi e i costumi della tradizionale vita nomade: viaggiano nel cuore del Sahara, vivendo di contrabbando o di piccoli commerci. Percorrono per settimane piste millenarie, rinnovando gesti e rituali senza tempo: si orientano con le stelle, dormono su stuoie all’aria aperta, bevono da otri di pelle appese sui dorsi dei cammelli, si cibano di datteri e formaggio di capra. Cinque volte al giorno arrestano le carovane per pregare: osservano il sole per individuare la direzione della Mecca, srotolano piccoli tappeti ed eseguono le abluzioni prescritte dal Corano.

“Allah akbar”, “Dio è il più grande”, ripetono in continuazione. Purtroppo anche questi ultimi cavalieri del deserto, custodi di un antico e prezioso patrimonio culturale, sono minacciati dall’aggressione della società moderna.

Nell’Africa di oggi sembra non esserci spazio per un popolo di nomadi tenacemente attaccato alla propria indipendenza e diversità.

I Tuareg vengono considerati dai Governi una minoranza pericolosa, una minaccia, e per questo sono oggetto di persecuzioni e discriminazioni. Le organizzazioni umanitarie hanno più volte denunciato arresti arbitrari, detenzioni illegali, violenze di ogni tipo perpetrate da militari e poliziotti contro i nomadi. Le autorità hanno avviato politiche di sedentarizzazione forzata che hanno prodotto risultati disastrosi: sradicati dal loro habitat e imprigionati nei caotici ritmi delle città, i Tuareg sono stati relegati ai margini della vita sociale.

L’irrequietezza di questo popolo, che rivendica la propria identità e che culla il sogno di uno stato indipendente, rimane inascoltata dalla comunità internazionale.

Le rivolte dei Tuareg scoppiate negli anni ’90 in Niger e Mali sono state soffocate nel sangue. Centinaia di migliaia di famiglie, distrutte e ridotte alla fame, sono state costrette a fuggire dagli accampamenti. Molti nomadi hanno trovato rifugio nelle periferie delle città del deserto Agadez, Tamanrasset, Gao, Timbuctù, Ghat in baracche arroventate, senza luce né acqua.

Vivono di espedienti, piccoli lavori saltuari: vendono oggetti di artigianato, trasportano merci e persone su camion sgangherati, oppure coltivano fazzoletti di terra strappati con fatica al deserto. I pochi che hanno trovato un’occupazione stabile vengono sfruttati in miniere di uranio, oro e altri minerali. Altri riescono a racimolare qualche soldo coi pochi turisti di passaggio.

I Tuareg vivono in bilico tra passato e presente, tra modernità e tradizioni, con l’impossibilità di tornare indietro nel tempo e la difficoltà oggettiva ad assimilare nuovi modelli culturali. Non hanno smesso di sognare gli spazi senza fine del Sahara. Sono nomadi anche da fermi, perché”L’essere nomade è un modo di vivere, ma anche un modo di pensare”.

Il mistero dei Tuareg

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“Tuareg” è un termine spregiativo coniato dagli arabi: significa “abbandonati da Dio”. I leggendari nomadi del Sahara preferiscono chiamarsi “imohag”, gli “uomini liberi”. Sono un popolo di stirpe berbera, le cui origini rimangono avvolte nel mistero: potrebbero discendere dagli antichi egizi, provenire dallo Yemen, oppure derivare dai mitici Garamanti, gli abitanti del Sahara citati da Erodoto, la cui straordinaria civiltà è stata raffigurata sulle rocce del deserto, in pitture e incisioni rupestri giunti quasi intatti fino a noi. Oggi i Tuareg sono stimati in circa un milione di persone: 500 mila vivono in Niger, 300 mila in Mali, 50 mila in Libia, 30 mila in Burkina Faso, 20 mila in Ciad, poche migliaia si trovano in Senegal.

Tratti somatici

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I Tuareg hanno una fisionomia longilinea e snella.
La forma della testa è piuttosto allungata, e il naso è quasi aquilino.
Gli occhi sono piccoli ed hanno la palpebra superiore che tende a superare quella inferiore: in questo modo si forma una piega nell’angolo esterno dell’occhio che serve come difesa dell’occhio dalla luce e dalle bufere di sabbia. I Tuareg utilizzano inoltre, a protezione dell’occhio contro i raggi del sole polvere nera chiamata khol.
Spesso la fronte o le tempie dei Tuareg sono segnate da cicatrici, poiché  vi è la credenza che facciano diventare la persona più forte e prestante, e che evitino le emicranie.
Gli uomini si rasano a zero i capelli e lasciano solo una treccia al centro della testa, che servirà ad Allah a portarli in paradiso; le donne, invece, hanno i capelli lunghi, legati in numerose treccine.
Gli uomini indossano una casacca corta, pantaloni molto larghi con cavallo molto basso, un’ampia toga chiamata draa e il litham, il loro copricapo. Le donne si vestono con una lunga gonna, una casacca e spesso un ampio mantello.
Sia uomini che donne portano croci al collo e indossano scarpe simili a larghi sandali.

Religione

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In origine animisti, i Tuareg sono stati convertiti all’Islam 1200 anni fa dagli arabi, ma hanno mantenuto intatte alcune delle loro tradizioni animiste modificando alcune di quelle musulmane:

  • è l’uomo e non la donna a tenere il volto coperto

  • non sono soliti pregare cinque volte al giorno rivolti verso la Mecca

  • gli uomini sposano generalmente una sola donna anche se è concessa la poligamia.

Credono negli spiriti buoni e cattivi detti ginni che abitano fra le montagne, nelle oasi, negli alberi e nei pozzi.
Gli spiriti sono conosciuti dalla donna che al momento del parto entra in contatto con essi: oltre alle voci di trapassati sentirà la voce, o meglio le mille voci degli spiriti dell’acqua che non possono uscire dalle sorgenti altrimenti il caldo del deserto li ucciderebbe.
Conosce anche gli zini, spiriti aerei che parlano tramite il vento e si materializzano in turbini o tempeste.
Altri spiriti galoppano aggrappati alla schiena delle lepri e portano la follia; altri, saranno trasportati da una mongolfiera o da prodotti artigianali in lontanissimi paesi.
Vi è il culto dei morti e si crede nella reincarnazione.
Le persone vengono seppellite con dei datteri in mano e talvolta i loro gioielli.

La civiltà della sabbia

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La società Tuareg è fondata sulla “famiglia”, le famiglie Tuareg si riuniscono in tribù chiamate tuaket aventi un capo elettivo chiamato Amràr; e quando le tribù si uniscono a vicenda formano una confederazione avente come capo l’Amenokàl.
Vi è inoltre un sistema di caste molto articolato.
Ai vertici della piramide sociale ci sono gli Imoràd o Imuhar: discendenti degli antichi eroi, possiedono cammelli e riscuotono le tasse.
Poi vi è la casta dei “religiosi” detti Imislinèn: insegnanti del Corano, stregoni-guaritori, sono una casta privilegiata e sono esentati dal pagamento delle tasse.
Gli Imràd sono figli di Tuareg e di donne straniere, sono dediti alla pastorizia e all’agricoltura.
Gli Iglàm o Iklan o Bellah o Harratin sono i servi degli Imoràd, spesso prigionieri di guerra che in alcuni casi possono essere liberati.
Infine gli Inaden sono i fuori casta e lavorano come artigiani del ferro e del cuoio; non sono nomadi, ma sotto richiesta, prestano i loro servigi a tutti i Tuareg i quali, però, li disprezzano grandemente.
La società tuareg è regolata da leggi particolari.

La lingua, la poetica orale

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La lingua dei Tuareg, il Tamacheq, ha un sistema vocalico a sei toni.
L’alfabeto è il Tifinagh e consiste di 24 segni più segni composti
L’ origine del Tifinagh è poco nota; ha delle lettere in comune con il fenicio e con l’alfabeto cuneiforme e si trova in alcune scritture libiche di circa 2000 anni fa.
Chi compone una poesia sa che questa verrà recitata o cantata da uomini e donne al suono dell’imzad, la viola monocorde suonata dalle donne, o mormorata da chi segue le mandrie al pascolo….o la sera davanti al fuoco dell’accampamento e nell’oasi di arrivo. Le poesie si apprendono a memoria e contengono i codici del matrimonio, della dote, l’insegnamento ai figli, il trattamento riservato ai nemici…
Raccontano le guerre, l’amore, la pastorizia, le vicende politiche.
La poesia cantata esprime gli aspetti più significativi della cultura tuareg, le regole del mondo pastorale, il cammello l’animale più caro, la caccia, il thé, le visite notturne all’accampamento dell’amata.
La poesia Tuareg è viva e i poeti continuano a comporre per celebrare un avvenimento, a trasmettere nuovi eventi, e, quindi contiene la storia e la maggior parte delle informazioni socio antropologiche.

Le donne Tuareg

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La donna Tuareg, targhia, occupa un posto centrale nella società dei nomadi
Svolge lavori faticosi e gestice gli accampamenti durante le lunghe assenza del marito partito in carovana.
Ella è depositaria della cultura attraverso la musica – l’imzad è sempre suonato da una donna -, la poesia e l’educazione orale dei figli. Contrariamente all’uomo non si copre il volto, la fotografa Henrietta Butler, che segue i Tuareg dal 2001, ha ricevuto questa spiegazione: «Le donne sono bellissime, vogliamo vedere il loro viso»; in caso di divorzio è a lei che rimane la tenda e il proprio gregge. La targhia non è una donna sottomessa
La leggenda tuareg vuole che l’unico sovrano accettato da tutti i Tuareg sia la regina Tin Hanan, la cui tomba è ad Abalessa, nell’Hoggar ed i resti al museo del Bardo, ad Algeri.
La libertà di cui godono fa sì che le donne Tuareg si sposino più tardi rispetto ad altri gruppi: l’età consueta è 20 anni. Sono libere di avere più partner sessuali al di fuori del matrimonio. Prima delle nozze una donna può avere tutti i partner che desidera. Le Tuareg sono particolarmente rispettate dai generi, che non osano mangiare nella loro stessa stanza, perché è considerato maleducato mangiare di fronte a una persona con cui non è possibile avere relazioni sessuali. Ricevono poesie scritte dagli amanti e loro stesse ne scrivono, avendo imparato l’alfabeto dalle madri. Una volta sposate, le donne non perdono diritti e poteri. Possiedono casa e animali, che sono la fonte primaria di sussistenza. Se la storia finisce con un divorzio (in genere deciso dalla donna), a lei restano le proprietà e i figli, a lui resta il cammello per tornare a casa dalla mamma. La mamma è la casa, la figura centrale attorno cui si sviluppa la comunità. Il divorzio non è per niente una vergogna, anzi spesso si fanno feste di divorzio per far sapere che quella donna è tornata libera. Non è una società matriarcale, gli uomini parlano di politica e fanno riunioni per decidere, ma il punto di vista femminile è consultato. E’ una società matrilineare, ovvero la linea di discendenza è femminile (da una regina), quindi è l’uomo ad appartenere ad un clan femminile, non il contrario.

Alimentazione

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I Tuareg vivono principalmente di prodotti ricavati dai loro animali.
La loro alimentazione è costituita da latte cagliato, burro fermentato, datteri e cereali (in particolare il miglio) dai quali ottengono la farina.
Cucinano un particolare tipo di pane che viene cotto sotto la sabbia rovente del deserto. Mangiano anche una sorta di polenta speziata di miglio, accompagnata da latte fresco cagliato e burro fuso.
La carne è mangiata raramente, ma quando c’è un ospite è tradizione uccidere una capra.
Nella tradizione Tuareg vi è anche un particolare rituale per la preparazione e la consumazione del tea.

Attività

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L’artigianato Tuareg è semplice e raffinato al tempo stesso: con il cuoio i nomadi realizzano gris-gris (portafortuna), borse, portafogli e selle per i cammelli (le più belle – fabbricate nell’Air, in Niger – sono decorate sulla parte anteriore con un puntale in cuoio e ai lati con piastrine d’argento o d’alluminio).

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L’argento viene lavorato per creare collane, orecchini e braccialetti. Altri oggetti tipici sono i pendenti-contenitori di talismani, le bacinelle di rame stagnato, le guerba (otri di pelle di capra) e i lucchetti placcati in argento e rame, con chiavi finemente cesellate. L’emblema del popolo Tuareg rimane la croce di Agadez, che i fabbri personalizzano con originali motivi geometrici.

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Musica

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La musica, i canti, la poesia occupano un ruolo fondamentale nella società tuareg.
La tradizione musicale presso i Tuareg non è né una professione, né un qualcosa di eccezionale, è semplicemente l’identità di un popolo nomade che rivendica di essere libero e senza frontiere. Gli uomini e le donne del deserto esprimono se stessi e la loro identità attraverso la musica, in modo molto naturale, sia che si trovino nei campi profughi o in esilio, che nei loro accampamenti.
Presso i Tuareg la musica non si apprende: tutti fanno la musica; si prende uno strumento e si suona, si canta e si danza.
Le donne rivestono un ruolo centrale: suonano l’imzad, la viola monocorda, fanno il “tendé”, cantano e ritmano con la battuta delle mani.
Il liuto, tehardent, è riservato all’uomo che impara a suonare in famiglia, per tradizione. Chi suona il liuto è l’aggouten, il cantastorie (poetica orale) : egli racconta quello che succede, dona coraggio, racconta di chi fa bene e chi fa male, narra le storie degli avi e delle generazioni attuali; egli attraverso la musica è il guardiano della tradizione e la storia è trasmessa attraverso i canti.La musica accompagna le feste civili e religiose e tutti gli eventi della vita, il matrimonio, il divorzio, il corteggiamento. Si canta la pace, l’amore, l’esilio, l’unione dei Tuareg e anche la politica.

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Gli strumenti della musica Tuareg sono il “tendé”, l’imzad, il liuto, la darbuka, e i suoni, oltre a quelli degli strumenti, sono costituiti anche dal battito delle mani delle donne, dalle battute dei piedi degli uomini, dalle grida degli uomini e dalle grida delle donne (Tarhalelit). Nella musica Tuareg attuale è presente anche la chitarra acustica.
Tendé: anticamente il tendé veniva suonato utilizzando un mortaio di legno usato dalle donne per i cereali trasformato in tamburo da una copertura con pelle di capra fissata da due pestelli e tenuta in tensione da quattro donne. Sopra la pelle di capra veniva messo un pezzo di stoffa che ogni tanto veniva bagnata. Il suono varia a seconda di quanto è bagnata la stoffa e di quanto viene tenuta in tensione la pelle di capra.
Oggi le donne suonano il tendé utilizzando le taniche della benzina.

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Il Tuareg ha una grande dignità personale. Se è assetato non chiede da bere, perciò il suo benvenuto è leggendario. I viaggiatori sono sempre trattati da re, accolti subito con cibo e acqua. Ora anche questa tribù, in Libia, soffre la minaccia dell’ISIS e di Boko Haram in Mali e in Nigeria. E qualche donna Tuareg ha cominciato ad indossare l’”Hijab”. Si spera che non sia una forma di regressione e che questa tribù riesca a mantenere vive le sue tradizioni, compresa quella di considerarsi superiore e meno primitiva di altre culture.

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Pubblicato 13 agosto 2015 da mariannecraven in Cultura, Società

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PAPA FRANCESCO E ALEXIS TSIPRAS STANNO CELEBRANDO IL FUNERALE DEL CAPITALISMO   9 comments

Mi è capitato soltanto oggi di leggere questo articolo, un pezzo davvero significativo, attuale anche se di un mese fa, soprattutto in questi giorni in cui si stanno scatenando battaglie politiche contro Papa Francesco, all’insegna di un populismo sfrenato, con l’unico obiettivo di portare a casa voti. Con un Salvini beceramente cinico, per il quale i “migranti” sono solo “clandestini”, non persone, e la sua affermazione che “respingerli” è un dovere; con quella parte del Movimento 5 Stelle che propone regole aberranti su un forzato rimpatrio; con articoli come quello di Feltri, apparso in questi giorni, mi sembra davvero di essere in guerra. Condivido ogni parola dell’articolo, credo fermamente che esista tanta parte “sana” in questa nostra Italia che ha ancora valori umani, sogni e ideali in cui credere e per cui lottare … ribloggo con immenso piacere, nella speranza che più persone possibili lo leggano e sappiano discernere …

NON E’ SERIO ALIMENTARE EQUIVOCI   Leave a comment

A parte il fatto che condivido ciò che scrivi, mi fa talmente ridere il termine “bimbiminkia”, che ribloggo l’articolo. Certo che la Serracchiani fa venire il dubbio che in giro dei bimbiminkia esistano davvero …

LETTERA AL COMPAGNO GRAMSCI   3 comments

TSIPRAS, QUESTO È UN UOMO, QUESTO È UN LEADER   Leave a comment

Pubblicato 29 giugno 2015 da mariannecraven in Politica, Società

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“Difendiamo i nostri granai”   3 comments

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Filastrocca dei tagliatori di sogni

di Bruno Tognolini

E voi tagliate
Togliete biblioteche
Per fare più patate
Potate tutti i fiori
Per far posto alle banche
Le torri dei guadagni
In queste terre stanche
State tirando giù i fari dei sogni

Ma è una pazzia
La vostra economia
Per essere salvata
Dev’essere un’economia sognata
E gli unici
Magici
Medici
Che dagli errori tragici
Ci tireranno fuori
Sono futuri economisti sognatori

Ma niente
Voi tagliate
Togliete a muso duro
I sogni sotto i piedi
E i piedi del futuro

Scritta per la manifestazione “Difendiamo i nostri granai”,
in difesa di biblioteche pubbliche, musei e siti archeologici della Sardegna, giugno 2012.
Pubblicata nel libro “Rime raminghe”, Salani Editore 2013
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Fotografia alla triennale   1 comment

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Deo Gratias

di Andrea Pertegato

Il 24 luglio si inaugura alla Triennale di Milano la mostra fotografica “Deo Gratias” riguardante progetti sostenuti da Coop Lombardia in collaborazione con associazioni della società civile, di donne in particolare, in Burkina Faso nell’ambito agricolo, dell’artigianato e dell’alfabetizzazione.

Deo Gratias è un lavoro fotografico che racconta i progetti di cooperazione di una piccola associazione, Donne per le Donne, che da molti anni opera in Burkina Faso.

L’associazione è sostenuta da Coop Lombardia che da sempre dimostra attenzione verso tematiche sociali e ambientali, selezionando i prodotti, soprattutto quelli a marchio, da distribuire all’interno della propria rete di vendita. «In particolare, attraverso gli articoli Solidal sosteniamo il commercio di piccole produzioni realizzate nei paesi in via di sviluppo – ci spiega il direttore delle politiche sociali Alfredo De Bellis – il che significa aiutare concretamente le comunità. In Africa tutto nasce per caso nel 1990 grazie a un incontro fortunato tra uno studente burkinabè, la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Milano e la nostra cooperativa. Il primo progetto è di agro-ecologia e il motto è produrre senza distruggere. Bisognava trovare il modo di contrastare l’avanzamento del deserto e far dialogare due culture diverse, perfezionando la tecnica, ma tenendo ben presente quelle che erano le conoscenze, le idee e i metodi di lavoro tradizionali. E da allora, in collaborazione con i gruppi di villaggio, raggruppamenti pre-cooperativi con finalità di sostegno alle attività locali, sono stati avviati moltissimi progetti che dall’agricoltura si sono estesi anche ad altri ambiti e che coinvolgono soprattutto le donne. È, infatti, proprio intorno a loro che ruota l’economia familiare e il progetto fotografico di Silvia Amodio».

«Orgoglio e determinazione ci hanno accomunato in questo percorso fatto di piccoli passi e di piccole somme, ma di tanto reciproco rispetto e voglia di condivisione –  spiega Daniela Faiferri, presidente dell’associazione – . Questa, infatti, è stata la sostanza del nostro rapporto: conoscere, cercare di capire, valutare insieme quali potevano essere le esigenze dei gruppi femminili dei villaggi da sostenere. Siamo partiti con l’acquisto di carriole e di biciclette per trasportare l’acqua e la merce al mercato, poi abbiamo introdotto il sostegno all’alfabetizzazione per i bambini dei villaggi, affinché la scuola fosse accessibile a tutti. Abbiamo anche organizzato corsi di formazione per avviare piccole attività artigianali che permettono alle donne di avere un’autonomia finanziaria, modesta, ma comunque significativa per il loro percorso di emancipazione. E per evitare il disagio di non riuscire a capire se il prezzo a cui stanno vendendo i loro prodotti artigianali è giusto, sono stati attivati corsi di alfabetizzazione per donne adulte». Ricordiamo, infatti, che il Burkina Faso è il terzo paese più povero al mondo e quello con il più alto tasso di analfabetismo, con un’aspettativa di vita che non supera i 50 anni. Eppure qui si respira aria di cultura e di tradizioni, il paese accoglie un importante festival internazionale del cinema, compagnie teatrali e importanti eventi musicali, oltre al Tour du Faso, la famosa gara di ciclismo dove anche Coppi partecipò nel 1959 contraendo la malaria, a causa della quali morì. Un’eredità culturale lasciata da un leader carismatico Thomas Sankarà, al quale Nigrizia ha dedicato molta attenzione.

Il titolo della mostra Deo Gratias, che letteralmente nella lingua latina significa grazie a Dio è stato preso in prestito dal nome dello studio fotografico che Bruce Vanderpuije ha aperto in Ghana nel 1922. Quando va bene in Burkina si mangia una sola volta al giorno. Questa espressione riassume lo spirito delle persone che vivono in un paese così povero dove non resta che affidare il proprio destino al Signore.

Fonte: nigrizia.it
Martedì 23 Giugno 2015
                            
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La forza delle donne: “Siamo noi donne che costruiamo il mondo!”   5 comments

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Donne che contano, l’esperienza del Senegal

di Anna Jannello

«Quando, come donne, si ha accesso alla proprietà della terra, ci si sente libere, autonome, rispettate, in grado di parlare alla pari con gli uomini e di spezzare le consuetudini che ci hanno impedito di possederla». È la convinta affermazione di Tinde Ndoye, presidente della Rete delle donne rurali di Thiès, che rappresenta 3 mila lavoratrici impegnate nel settore agricolo. Nel suo paese, il Senegal, la maggioranza dei 13 milioni di abitanti vive in zone rurali, dove il lavoro agricolo è svolto principalmente dalle donne: l’82 % di loro è impegnato nei campi e assicura oltre l’80 % della produzione alimentare.

Tuttavia hanno un accesso ancora limitato alla terra: gli uomini capofamiglia possiedono il 61 % delle proprietà agricole contro il 31 % detenuto da donne che svolgono lo stesso ruolo. Tinde fa parte della delegazione di venticinque donne senegalesi, tutte responsabili di cooperative e associazioni, che hanno portato la loro testimonianza nel seminario sulle sfide della nuova Agenda per lo sviluppo, organizzato dalla Cooperazione italiana alla cascina Triulza (padiglione della società civile all’interno di Expo 2015).

Altre rappresentanti di realtà locali, nei loro coloratissimi bou bou, hanno preso la parola. Maïmouna Ndao, presidente di Mutuelle Teranga a Kaolack, ha sottolineato l’importanza delle piccole imprese e dei commerci gestiti dalle donne: il network Aprofes, di cui fa parte la sua associazione, ha formato 30 mila donne e dato vita a 500 iniziative commerciali. «Per poter dire no a chi ci vuole sottomesse bisogna essere autonome economicamente. Lavoriamo anche venti ore al giorno, senza un minuto per noi stesse», ha detto ricordando che le istituzioni preferiscono «parlare delle donne piuttosto che con le donne e capire le loro esigenze».

Seynabou Cissé, presidente della Piattaforma per la promozione della pace in Casamance, ha raccontato della difficoltà di lavorare i campi nell’ex granaio del paese a causa del conflitto irrisolto da 32 anni: le donne si sono mobilitate per fare sminare i sentieri che conducono ai loro appezzamenti e si sono riunite per partecipare al processo di pace. Aïssatou Dème ha convinto 80 donne di Guinguinéo, 250 chilometri a sud di Dakar, a lavorare delle terre ritenute poco fertili e, dopo l’installazione di una pompa a energia solare per estrarre l’acqua, adesso sono proprietarie dei loro campi. «Al mattino faccio formazione alle donne, il pomeriggio lavoro la terra, la sera sono sposa e madre. Siamo noi donne che costruiamo il mondo!» ha affermato con fierezza.

Valorizzare il ruolo delle donne come protagoniste dello sviluppo, lottare contro le discriminazioni di genere sono fra gli obiettivi di diversi programmi che dal 2008 la Cooperazione italiana promuove nelle regioni di Dakar, Kaolak, Thiès, Kolda, Sedhiou per rafforzare le capacità imprenditoriali femminili. Argomenti che saranno ripresi nella “Carta delle donne” che Women for Expo intende lanciare durante l’esposizione universale milanese come documento condiviso dalla galassia di associazioni femminili impegnate sui temi del nutrimento e della sostenibilità.

La discriminazione di genere può essere contrastata anche con l’ironia: è il messaggio del docufilm Goor Ndongue (proiettato durante il seminario) che mette in scena una quotidianità capovolta. Le donne lavorano in città e trovano tutto pronto al ritorno, gli uomini si occupano dei bambini e delle faccende domestiche, vanno al mercato, lottano per conquistarsi le attenzioni del marito poligamo e una briciola di libertà scontrandosi contro la tradizione che le vuole obbedienti e sottomesse…

Fonte: nigrizia.it
Mercoledì 24 Giugno 2015
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“L’edificando muro magiaro voluto dal fascistoide Orban”   Leave a comment

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Moni Ovadia
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Il valore dei muri

di Moni Ovadia
Venerdì 19 Giugno 2015

Lo scan­dalo e l’esecrazione pro­vo­cati dal cele­ber­rimo muro di Ber­lino non hanno più avuto rea­zioni con­si­mili in quelle pro­vo­cate da altri muri che stanno sor­gendo da molte parti in Europa e nel mondo. Nes­sun Pre­si­dente degli Stati Uniti suscita la com­mo­zione dei sedi­centi demo­cra­tici con le sue frasi lapi­da­rie come fu quella pro­nun­ciata da John Fitz­ge­rald Ken­nedy in rife­ri­mento al quel muro della Guerra Fredda: «Ich bin ein Ber­li­ner». Repli­cherà Obama un exploit del genere pro­nun­ciando un vibrante: «I am an ille­gal immi­grant» o «I am a gipsy» davanti all’edificando muro magiaro voluto dal fascistoide Orban? C’è da dubi­tarne visto che sul con­fine fra Mes­sico e Usa c’è una bar­riera il cui scopo è quello di arre­stare l’immigrazione illegale.

L’Europa Comu­ni­ta­ria, con ogni pro­ba­bi­lità, non farà nulla nei con­fronti dell’Ungheria dato che fino ad ora non ha fatto gran­ché per con­tra­stare i prov­ve­di­menti liber­ti­cidi e anti­de­mo­cra­tici del suo governo. Alla comu­nità Euro­pea non importa niente della libertà e men che meno della demo­cra­zia, quella vera si intende e non la mise­ra­bile scorza a cui quell’idea è stata ridotta. Quanto ai diritti, si tratta solo di chiac­chiere o di qual­che richiamo poco o per nulla impegnativo.

Que­sta cari­ca­tura buro­cra­tica di pseudo asso­cia­zione sovra­na­zio­nale mone­ta­ria ha get­tato alle orti­che la cul­tura e l’ideale anti­fa­sci­sta da cui è nata con grandi annunci e grandi spe­ranze e pre­fe­ri­sce pro­ster­narsi davanti alla pre­po­tenza dei poten­tati eco­no­mico finanziari.

La Ue tol­lera con non­cha­lance i revan­sci­smi fasci­sti, gli xeno­fobi e i raz­zi­sti, ma si acca­ni­sce con cinico piglio ideo­lo­gico con­tro l’unico governo di sini­stra del vec­chio con­ti­nente, quello della Gre­cia, per­ché si rifiuta di mas­sa­crare i ceti deboli.

Que­sta Europa non è molto dis­si­mile da quella che assi­stette alla nascita del Nazi­smo, non ha impa­rato niente dalla lezione a parte la reto­rica del Giorno della Memo­ria. I lea­der euro­pei sono sot­to­messi all’ossessione di esten­dere la Nato per ricreare la Guerra Fredda con­na­tu­rata al volere ege­mo­nico degli Usa, il cui mal­ce­lato sogno è sem­pre stato quello di dis­se­mi­nare la fron­tiera con la Rus­sia di instal­la­zioni mili­tari per pun­tare i mis­sili fra le nati­che di Putin, il quale  sarà anche un ese­cra­bile auto­crate, ma ha le sue ragioni, come non smet­tono di ricor­dare anche i “migliori” ana­li­sti sta­tu­ni­tensi quali Henry Kissinger.

Ma l’Europa — e nella fat­ti­spe­cie la Mit­te­leu­ropa a stelle e stri­sce — pre­fe­ri­sce di gran lunga con­vi­vere con le ragioni di fasci­sti xeno­fobi e revan­sci­sti che pre­ci­pi­tano l’odio verso immi­grati e rom per fomen­tare l’infame guerra fra poveri, instru­men­tum regni il cui scopo è quello di per­pe­tuare poli­ti­che regres­sive nei con­fronti dell’uguaglianza e della pari dignità sociale di tutti gli uomini.

Per quanto ci riguarda, la lezione più urgente da trarre dalla dis­se­mi­na­zione di que­sti nuovi muri, è che l’antifascismo non è un vec­chio arnese da sof­fitta della Sto­ria, ma un ideale vivo e pul­sante sino­nimo di civiltà della democrazia.

E’ ora di ripren­dere il cam­mino della Resi­stenza per com­pierne il lascito.

fonte: L’Altra Europa con Tsipras
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Ho sempre avuto stima e ammirazione per Moni Ovadia. Ho avuto il piacere e l’onore di conoscerlo, uomo di straordinaria intelligenza, cultura e umanità. I suoi spettacoli mi hanno sempre entusiasmato, grande attore, grande musicista, un artista a tutto tondo, che ha saputo esprimere anche attraverso lo spettacolo i suoi grandi valori di vita. Condivido pienamente questo articolo, frutto del suo impegno politico e sociale. Grazie Salomone.

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Gran bel pezzo, Lidia, mia grande maestra di vita! Sempre con te!   4 comments

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Invasioni barbariche? Migrazioni di popoli? Migrazioni di massa?

di Lidia Menapace

Chiamiamo invasioni barbariche quelle che interessarono lo Stivale per alcuni secoli dopo la caduta del’Impero romano d’Occidente. Addirittura chiamando “regni romano-barbarici” quelli che ne derivarono in vari luoghi dell’Italia settentrionale.
Vediamo di intenderci sull’uso dei termini, a partire dalla toponomastica: ad esempio Bologna, che era una città etrusca col nome di Felsina, fu chiamata Bononia dopo l’invasione dei galli Boi; allo stesso modo Sena fu chiamata gallica,  in Italiano Senigallia.. La Gallia cisalpina (cioé posta di qua: cis) divenne Lombardia dopo essere stata conquistata dai Longobardi. I Celti (altra tribù gallica) lasciarono  nomi in -ate, come Linate, Trecate, Brembate, Tradate  ecc. ecc..  Gotica, dopo le invasioni dei Goti fu detta la linea dell’antico confine d’Italia, sotto la quale linea era vietato dalle leggi romane portare armi ed eserciti. Appunto il varco del Rubicone da parte delle truppe comandate da  Giulio Cesare ai suoi tempi fu il segno del suo colpo di stato e probabilmente Hitler pensò di ristabilire quel confine obbligando le sue truppe alla più feroce resistenza appunto alla “linea gotica”. ll cascinale dei Cervi, era su quella linea, verso l’Adriatico, come S.Anna di Stazzema lo era verso il Tirreno.
Mentre in Italia quegli arrivi di popolazioni straniere erano  sentiti come invasione barbara da parte di popoli dei quali non si capiva la lingua e non si condividevano i costumi  nè l’urbanizzazione, nelle popolazioni di origine germanica che ne furono per lo più protagoniste erano chiamate in modo neutro  Voelkerwanderungen, cioé migrazioni di popoli, anche quelle provenienti dall’Asia (Attila di lì arrivava e per sfuggirlo fu costruita nella palude Venezia, che in effetti è una delle meno antiche città italiane).

Il termine greco barbaròs, barbaro significava balbuziente, incomprensibile,  e conteneva un cenno di superiorità da parte dei Greci, che infatti riconoscevano come pari e non barbari solo gli Egizi, mettendo le basi del fenomeno che chiamiamo razzismo.

Non so in altri continenti, dei quali non conosco abbastanza la storia, ma certo in Europa un fenomeno di questo tipo, comunque lo si voglia chiamare, avviene dopo la caduta o la crisi grave di un assetto politico, economico, sociale e culturale di lunga data e segna un passaggio epocale. Non sembra che vi si possa porre ostacolo, per quanta ferocia e violenza si metta nel reprimerlo, controbatterlo, sconfiggerlo. Le popolazioni del nord arrivarono fino in Sicilia coi Normanni, a Trani è sepolto un re longobardo, Alarico è sepolto a Cosenza  ecc.ecc. Queste estreme scosse geopolitiche spesso si intrecciano con periodi di straordinario favore, successo, gloria, splendore. E riportano la storia indietro di secoli: ad esempio le prime distrussero spesso le vestigia dell’ordine giuridico romano; la seconda di tali evenienze, cioè la scoperta dell’America, che fu contemporanea del Rinascimento, vide il ripristino della schiavitù, e oggi assistiamo quale guasto sulla fragile, sottile e superficiale crosta civile sta avvenendo in Europa, con non pochi segni di ritorno del Feudalesimo (le corporazioni, il lavoro non pagato dei e delle migranti).
Sembra dunque di poter sommariamente riassumere questo capitolo storico col dire che talora, nel bel mezzo di una storia che avanza secondo le sue intrinseche propensioni, gusti, cultura, scoperte ecc. ecc., si infilza qualcosa di estraneo, allotrio, incomprensibile, che genera panico e ripudio e fa tornare indietro quel complesso di convinzioni, giudizi, comportamenti, leggi  ecc. ecc. che chiamiamo civiltà; si avvia una profonda ondata di insicurezza, ansia, panico, odio, respingimenti ecc. ecc.

Torno a ripetere che non pare vi si possa porre rimedio, meno che mai accentuando le previsioni di “invasione”, “cancellazione”, “perdita di identità” e simili: tutte queste “risposte” producono danni maggiori, e d’altronde non sono meccanicamente sostituibili con i soliti discorsi  di buonsenso e buon cuore sull’accoglienza, accettazione, inclusione, ecc. ecc. Le prediche lasciamole al papa, ché gli spettano.

Ma allora: che fare?
Forse molte cose anche non coordinate e connesse tra loro, apparentemente casuali o anomale, guardando solo di evitare accuratamente il confronto sulle religioni, il passato, la storia e la gara tra le civiltà. I missionari, se hanno scelto di convertire l’Islam facciano, ma non diano il minimo sentore di politica alla loro predicazione, nè di carità o elemosina ai loro lavori.
Racconto ciò che ho provato a fare io. Premetto che da anni mi aspetto una ondata di Voelkerwanderungen, e mi chiedo in che rapporti esse siano con la crisi mondiale, globale, capitalistica, che agisce naturalmente mostrando attraverso le televisioni, i giornali, insomma i mezzi di comunicazione di massa, immagini affluenti, ricche, vantaggiose, dall’Europa e dagli USA, suscitando per contrasto desideri e proiezioni verso di noi. Sicché quando nelle parti povere del pianeta si cade nella miseria, carestia, e magari anche guerre e dittature, parte una migrazione di popoli che si scarica attraverso inenarrabili fatiche, rischi, privazioni, morti, sulle coste mediterranee e ci arriva addosso, a me nella forma di quelli, raramente quelle, che vendono per strada piccole merci o chiedono direttamente l’elemosina, oppure lavano i vetri delle automobili ai semafori, insomma ciò che sappiamo e vediamo ogni giorno.

Mi fa vergogna  sia di dare qualcosa che di non dare nulla a chi chiede, ma poiché penso che loro preferiscono che io mi vergogni dando qualcosa, quando esco di casa per fare la spesa mi metto in tasca quei pochi euro che ogni giorno posso dare via. E perchè non pensino di essere una  cassetta delle elemosine, sono solita salutare e chiedere da che paese vengono, da quanto sono in Italia, insomma che tempo fa. Rispondono volentieri, soprattutto gli Africani, che la seconda volta ti chiamano già mama.  
Dopo un po’ di tempo, siccome un arabo (scoprirò poi marocchino, di Fez) vende asciugamani e calzini di buon cotone, se mi servono, mi servo da lui e lui a sua volta cerca di sapere chi sono chiedendo ad altri di Bolzano che abitano nelle vicinanze. Bolzano è una piccola città e la sua curiosità viene soddisfatta. Incomincia a chiamarmi dottoressa e si offre di portare fin sottocasa la spesa, va bene, intanto parliamo e lui a un certo punto dice che dove abita lui l’acqua c’é, però manca il pozzo.
Ma perché allora, se io riesco a mettere da parte del denaro mio o che mi viene dato, non lo  raccogliamo allo scopo di scavare il pozzo? Loro ci mettono il lavoro, io aiuto a comprare le macchine ecc. La cosa si fa e infine ricevo quello che sono solita citare come il più bel complimento che abbia ricevuto in vita; ”dottoressa al mio paese anche gli asini ti vogliono bene”, poiché se c’è il pozzo bevono e si tolgono la sete anche gli asinelli, giusto.  Ma poi – mi dice –  c’è un grande cambiamento, anche le donne si riuniscono, lavorano, discutono, propongono, una cosa mai vista. “Caro, si chiama rivoluzione” gli dico tra il serio e il faceto.     
Fatto il pozzo, le donne pensano che anche i loro cibi sono buoni e che se si fa un centro per i possibili turisti, si ha modo di vendere qualcosa. Detto fatto, a settembre ci andrò, per inaugurare il centro, che mi chiedono di poter chiamare menapace: benone, è un buon augurio.

Bisogna fare copie di questo? certo che no, è andata così per caso, però bisogna mantenere accesa la curiosità verso quel che succede e se ha dentro di sé anche timori e rischi, cercare se o cosa ha anche di utile o positivo e lavorarci  sopra col massimo di eguaglianza possibile, senza montare in cattedra, ricordando sempre che noi europei ed europee abbiamo inventato fatto e praticato verso di loro il colonialismo più sfruttatore e che quindi se non ci sparano a vista, ma accettano di lavorare con qualcuno/a  tra noi, sono generosi e intelligenti, speriamo vada tutto bene, io speriamo che me la cavo, appunto. Lidia

da Rifondazione Comunista
Lunedì 22 Giugno 2015

                    
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