Archivio per l'etichetta ‘Buongiorno’
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Ogni giorno è diverso dall’altro, ogni alba porta con sé il suo speciale miracolo,
il suo istante magico, in cui si distruggono gli universi passati e nascono nuove stelle.
I Navajo insegnano ai loro bambini che ogni mattina il sole che sorge è un sole nuovo.
Nasce ogni giorno, vive solo per quel giorno, muore alla sera e non ritornerà più.
Dicono ai loro piccoli: il sole ha solo questo giorno, un giorno.
Vivi bene la tua vita in modo che il sole non abbia sprecato il suo tempo prezioso.
(Paulo Coelho)

Per essere giù dal letto, sono giù.
Ora devo solo alzarmi dal pavimento.
(Anonimo dal web)

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Estate
Romana Rompato
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Calda Estate tutta d’oro,
che cos’hai nel tuo tesoro?
Pesche, fragole, susine,
spighe, e spighe senza fine,
prati verdi e biondi fieni,
lampi, tuoni, arcobaleni,
giorni lunghi, notti belle
colme di lucciole e di stelle
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Romana Rompato (1884-1955) iniziò la carriera dalla gavetta. Nata in povera famiglia numerosa, a 13 anni, quale pietoso sussidio, le fu permesso di entrare col titolo di assistente nelle scuole elementari di Schio.
Studiando da sola, nel 1904 ottenne la licenza normale e, dopo 2 anni, il diploma di abilitazione all’insegnamento elementare.
La morte di un fratello nel 1908 seguita dalla debilitazione del padre che, per un incidente sul lavoro, trascinò una vita di dolore fino a spegnersi nel 1913, sono gli eventi che affinarono la sua sensibilità, introducendola alla meditazione e allo scandaglio del sentimento per approdare a una personalissima visione della vita di cui d’allora in poi comunicò i multiformi aspetti attraverso la letteratura e la poesia.
Le furono compagni in quegli anni la povertà, la preoccupazione per la famiglia che lei, come figlia più anziana, tirava avanti aiutando la madre, la mestizia di raggiungere la trentina d’anni senza nemmeno un sogno di una famiglia propria e, infine, il sopraggiungere della prima guerra mondiale della quale sentì tutta la dolorosa tragicità e dalla quale uscì con l’animo e la mente irrobustiti e pronti alla creazione artistica più completa.
La scuola e la famiglia sono sempre sulla cima dei suoi pensieri mentre il suo sogno di donna svanisce ogni giorno di più. Solo l’arte le è compagna fedele e nell’arte si realizza ricompensandosi del povero quotidiano esistere. E’ un surrogato della vita ma la sua fede cristiana le indica che bisogna saper fiorire dove Dio ci ha seminati.
Nel dopoguerra, dopo “Le consolatrici” del 1913, è tutto un susseguirsi di attività letteraria e poetica che approderà nel 1933 alla pubblicazione del “Paese dei ricordi” che, assieme alle prose raccolte in “Terra in fiore”, rappresentano la sua maturità e fissano nel tempo la sua ispirata comunicazione.
La sua descrizione è concreta ma capace di intendere mille cose d’una realtà di antica tradizione, di una ricchezza inesauribile di nozioni e dominazioni, che si può facilmente valutare facendo il confronto con la ricorrente genericità, incapace ormai di aderire al descrivibile, se non “all’ingrosso”, oppure con troppa inerzia anche se acuta analiticità.
L’arte della Rompato fiorisce purtroppo in una stagione inclemente. Un ostacolo imprevisto al riconoscimento del suo valore la Rompato lo incontrò nella mutata situazione del tempo. Non era tanto un mutamento sul piano della cultura quanto di ciò che la politica in quel tempo chiedeva alla cultura.
D’Annunzio aveva concluso nel suo dorato romitaggio; il Futurismo si era ammosciato sconfessato dai suoi stessi adepti; resistevano Pascoli e Carducci però come autori innocui di una bella stagione; sorgevano e si imponevano nomi come ad esempio: Pirandello, Quasimodo, Ungaretti, Montale, Saba, alcuni collegati sotto il titolo di Ermetici, che si citano a proposito per indicare ciò che sovrastava anche al destino della Rompato. Per sfuggire alla retorica ufficiale c’era la scappatoia dell’ermetismo.
Per ciò si profilò allora un selezionato gruppo di una “civiltà di minoranza” che costituì non un fatto individualistico ma una cultura di non illusoria civiltà, lontano dalle velleità di grandezza e da valori che non fossero artistici. E’ un gruppo che non ha la forza di presa di altre più o meno inquadrate tendenze ma che ha dalla sua uno stile moderno con scambi europei, destinato a segnare l’autentico valore di un tempo e di una generazione. In pittura si pensi a un Morandi, a un Casorati e a pochi altri.
Anche l’arte della Rompato è adeguata alle reali possibilità del paese, destinata cioè a rappresentare un filone di quella minoranza che non aveva bisogno di lauree compiacenti per esistere. La Rompato era nella sua maturità ma con radici culturali che risalivano allo Zanella e al Pascoli e per ciò non ebbe né tentennamenti né ribellioni, continuando a creare, senza badare né ai futuristi né poi agli ermetici, su quelle fondamenta che con tante fatiche e rinunce si era create e nelle quali credeva. Ed era l’unica allora a Schio che facesse cultura, cioè qualcosa di nuovo con possibilità di sviluppo.
Da ciò si vede anche che non subì contaminazione politica e basta confrontare ciò che lei scriveva, prima e dopo la Liberazione, con gli scritti di paralleli “camaleonti”.
Ecco allora che chi oggi legge le sue prose e poesie, così prive di ardimenti formali e di tensioni nazionalistiche, allora di moda, può cadere nel trabocchetto di non scorgervi ciò che di eccezionale contengono e per ciò ritenerle ingenue e di poco valore. Bisogna valutare quel tempo e le tentazioni che si offrivano agli scrittori. In verità non c’era da scherzare con donne come quella, né sul piano del lavoro né su quello delle idee.
La Rompato era conscia del proprio valore e se ricercò consensi critici non si rivolse mai alle gerarchie politiche ma a quelle delle letteratura come, in questo dopoguerra, non cessò di chiedere umilmente qualche nota critica a chi, secondo lei, avrebbe potuto dirle che non era vissuta invano. Ma male ripose la sua fiducia perché la risposta non si sa se considerarla insensibile o invidiosa, certo non pertinente.
Negli ultimi suoi anni, ben poco potevano dirle i premi vinti nei concorsi, i titoli accademici, le varie medaglie e gli elogi meritati; le restava l’ampia schiera di ex allieve che non l’aveva mai dimenticata e non la dimenticava, riconoscente di vivere in una patria liberata e con possibilità di ripresa anche per suo merito.
Portò fino all’ultimo con dignità la sua povertà, non avendo inteso rincorrere nessuno che non fosse andato a lei per offrirle comprensione e stima. Per quelli si, la sua amicizia fu costante e sincera.
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Un lungo viaggio
di Gianni Rodari
Un lungo viaggio voglio fare,
i bimbi del mondo andrò a trovare.
Ad uno ad uno li voglio vedere,
per sapere
come stanno, che fanno,
se vanno a scuola o non ci vanno,
se una mamma ce l’hanno
se hanno un papà che va a lavorare
e almeno una sorellina per giocare.
Voglio sapere chi rimbocca
le coperte dei loro lettini,
chi li sgrida se i ditini
si mettono in bocca,
se c’è chi pettina i loro capelli
con il pettine bagnato
e se è stato rattoppato
lo strappo nei calzoncini belli.
Voglio essere sicuro
che nessuno abbia paura quand’è scuro
che abbiano tutti vicino al cuscino
un bel sogno da sognare,
e una nonna che li tiene per mano
e l’Uomo Nero fa stare lontano.
E dirò loro: “Buongiorno, bambini,
bianchi, gialli, morettini,
bimbi di Roma e di Santa Fé,
color di latte o del caffè,
Bimbi ridenti di Mosca e Pechino,
o poveri fiori falciati
nel Paese del Fresco Mattino
bimbi dal ciuffo nero o biondo
buongiorno a tutti i bambini del mondo”.
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Questa filastrocca è tratta da “Il secondo libro delle filastrocche” della collana “Struzzi” (ma si trova anche nel volume “Storie e rime” della EL). Fu pubblicata per la prima volta il 1 giugno del 1952 sul periodico “Noi Donne”.


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