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Ferragosto magico … nei dintorni di Mantova …   3 comments

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Il Borgo delle Grazie di Curtatone

Uno degli eventi più tradizionali in provincia di Mantova si svolge a Curtatone nel mese di agosto, si tratta dell’Antica Fiera delle Grazie nel periodo di Ferragosto.

Ogni anno il 15 agosto in coincidenza con una delle maggiori feste che la Chiesa dedica alla Madre di Dio nel giorno della sua Assunzione, si rinnova l’antichissima Fiera delle Grazie, le cui origini risalgono al 1400.

Il nome del Borgo deriva dalla presenza di un luogo di culto chiamato dal 1362 Santa Maria delle Grazie e documentato dal 1037. L’odierno santuario si trova nel punto in cui sorgeva la chiesa medievale di Santa Maria di Reverso.

Il nucleo storico di Grazie è rappresentato dal Santuario della Beata Maria Vergine delle Grazie e dagli edifici posti sul perimetro della piazza antistante. La parte più antica è quella delle abitazioni a schiera in via Madonna della Neve, nelle quali si riconosce – nonostante le trasformazioni avvenute – la cellula originaria che diede luogo nel tempo alle varie tipologie edilizie. Case di pescatori, dunque, e case sorte dalla chiusura dei portici che contornavano la piazza, come quelle sul lato destro della stessa, che ospitavano botteghe e ricoveri per i pellegrini. All’ingresso della piazza si nota un edificio liberty, Palazzo Sarto.

Il santuario, in posizione rialzata sui canneti del Mincio, ha il fiume che gli scorre alle spalle e la facciata rivolta verso il borgo. Iniziato nel 1399 e consacrato nel 1406, è in stile gotico lombardo, ingentilito da una loggia composta di tredici archi a tutto sesto sostenuti da quattordici colonne. Le lunette sotto il porticato, affrescate nel Seicento, raccontano la storia del luogo. La pianta è rettangolare a una sola navata senza transetto. L’architetto è stato identificato in Bartolino da Novara, lo stesso che progettò il castello di San Giorgio a Mantova.

Varcata la soglia della chiesa, si è colti da stupore profondo. Una folla di statue ex-voto sembra protendersi verso lo spettatore dalle nicchie in cui sono collocate. Le sculture fanno da quinta a un teatro dei miracoli cinquecentesco e barocco. Pare che l’impalcato ligneo a doppia loggia sia stato costruito nel 1517 da frate Francesco da Acquanegra per mettere ordine ai molti doni votivi accumulati negli anni: grucce e schioppi dei miracolati, ex voto anatomici in cera (mani, occhi, seni, bubboni pestiferi, dei quali i fedeli chiedevano la guarigione) e infine figure in legno, stoffa e cartapesta di pellegrini illustri, di devoti imploranti una grazia o di scampati da pericoli mortali. Ci sono le nobildonne, ma anche una figura femminile con cappello di paglia chiamata, per l’aspetto dimesso, “la miseria delle Grazie”; ci sono il cardinale, soldati in abiti cinquecenteschi, il salvato dall’affogamento, il salvato dall’impiccagione, il boia; e ghirlande, bizzarrie barocche, la cera usata come decorazione, così spagnolesca. I frati rimpiazzavano le povere rivestiture di stoffa che andavano in pezzi: uno di loro, Serafino da Legnago, è raffigurato nella nona statua a destra dall’ingresso della navata.

Su ottanta nicchie, ne restano 53 contenenti la scultura. Il tutto fa pensare a una Wunderkammer (casa delle meraviglie), uno di quei musei eclettici del Cinque e Seicento, dove gli oggetti erano contenuti in armadi e scansie o appesi alle pareti e al soffitto, come il coccodrillo impagliato d’inizio Quattrocento, segno del demonio che fugge davanti alla Madonna.

Le cappelle della chiesa custodiscono straordinari monumenti sepolcrali, come quello – a firma di Giulio Romano (1529) – in cui riposa, nella cappella di famiglia decorata a grottesche, Baldassarre Castiglioni, intellettuale e diplomatico, autore di uno dei libri più letti del tempo, Il Cortegiano. Il bellissimo Martirio di San Sebastiano di Francesco Bonsignori (1495), allievo di Andrea Mantegna, adorna la cappella Zibramonti. Il monumento di Bartolomeo Pancera è un’opera d’inizio Seicento attribuita ad Antonio Maria Viani.

Magnifica è la decorazione delle vele delle volte, di gusto gotico internazionale. Nell’altare maggiore (1646) sopra il tabernacolo è inserita l’icona miracolosa della Madonna delle Grazie adorata dai pescatori, una tavola su pioppo di anonimo quattrocentesco che mescola tratti popolari con echi bizantini. Nella sacrestia sono conservate numerose tavolette votive dipinte tra Seicento e Ottocento.

La storia del santuario, della fede che lo circonda e dell’affollata Fiera delle Grazie, che si svolge a metà agosto, si perdono nelle nebbie del passato.

Tanto tempo fa, proprio qui sulle rive del Mincio, non lontano da Mantova, tra canne palustri e inestricabili canali c’era un rudimentale tempietto con dentro l’immagine della Vergine.
Chi abitava nel vicino, piccolo borgo, per lo più boscaioli e pescatori, veniva spesso ad adorare la sacra effigie, a chiedere qualche grazia, e a volte la Madonna li esaudiva. Così loro, per ringraziare, ritornavano ogni volta a pregare e a offrire ex voto. La fama della Madonna del Mincio che faceva miracoli tra voli d’uccelli e guizzi di pesci, valicò ben presto quei piccoli confini. Così incominciarono ad arrivare anche mercanti, nobili, persino principi e sovrani.
Uno di loro, Francesco Gonzaga, per scongiurare l’incubo della peste, era il 1399, fece addirittura il voto di innalzare un sontuoso tempio. E già nel 1406 era pronto per stupire.
Vi si insediò un’operosa e devota comunità di francescani, mentre sul grande piazzale del santuario, di pari passo con l’affluire dei pellegrini, crebbe a dismisura una fitta, brulicante attività di commercianti, girovaghi e avventurieri.
Era un caos, tanto che l’11 agosto 1425 il marchese Gianfrancesco Gonzaga istituì il libero mercato delle merci di Grazie, pubblicando la prima grida che regolamentava i traffici. Per esempio stabiliva la distanza della fiera dal santuario, il tipo di merce che si poteva esporre e il relativo prezzo.

Oggi come allora, davanti al tempio, nel cuore dell’infuocata estate mantovana, il sacro e il profano s’incontrano: i madonnari coi gessetti da una parte, la festa con le bancarelle dall’altra.

Lasciando questo luogo dei miracoli in cui s’intrecciano fede, suggestione, scenografia del sacro, istinti profondi, si scende “là dove il Mincio si disperde in giri lenti e contorti orlando le rive di canne flessuose ” (Virgilio, Georgiche, III). Dal fiume, il santuario – che i pellegrini e i Gonzaga raggiungevano più in barca che via terra – appare come una visione di linee tondeggianti e slanciate sul ciglio di una vasta distesa di canneti.

Oggi il vanto di Grazie è il fiore di loto che nei mesi di luglio e agosto fa la sua lussureggiante apparizione sul Lago Superiore. Il loto è stato importato dall’Oriente nel 1921 da una naturalista mantovana.

Un tempo i prodotti del borgo erano quelli ricavati dalla coltivazione della canna palustre, come le “arelle”, usate soprattutto come coperture leggere per i controsoffitti, e il carice, con cui s’impagliavano sedie e fiaschi.

Un piccolo borgo ma oggi con tanti ristoranti dove provare il famoso luccio in salsa, piatto principe di una cultura gastronomica legata ai cibi di terra della tradizione contadina e ai cibi d’acqua dolce dei pescatori.

Ogni anno il 13 agosto, la sfilata storica per le vie del borgo delle Grazie inaugura la tradizionale Fiera che anima uno dei “Borghi più belli d’Italia” fino al 17 agosto. L’antichissima fiera è un appuntamento imperdibile nell’estate mantovana, moltissimi eventi, connubio tra fede, arte, cultura, gusto e intrattenimento. Mentre si visita la fiera e si fanno acquisti presso i numerosi banchetti non si può non ammirare il Borgo. A lato della piazza vi è una viuzza che porta al porticciolo sul lago. In questo ampio angolo di verde, durante la Fiera viene allestito l’accampamento medievale.

Dalla sua fondazione, circa 600 anni fa, protagonista della Fiera è il suo grande mercato e negli ultimi anni l’incontro nazionale dei madonnari è un’altro punto forte: più di 100 artisti “Madonnari” si prodigano, per una notte e l’intero giorno successivo, nella realizzazione di opere suggestive ed emozionanti, che trasformano il Sagrato del Santuario in una “galleria dell’effimero” unica al mondo. E’ questa la magia che si ripete ogni anno, nella notte del 14 e nel giorno del 15 agosto, festa dell’Assunta.

Dal 1973, anno del primo raduno, i madonnari arrivano da tutto il mondo: Stati Uniti, Ecuador, Spagna, Germania e via dicendo. Pochissimi i maestri, pochi i qualificati, la maggior parte madonnari semplici.
Guardandoli lavorare sembrano padroni solo di sé stessi, silenziosi, immersi in mille piccole solitudini. In realtà interpretano nel modo migliore il senso profondo del raduno. Il loro incontro multietnico è un messaggio di solidarietà, pace e coraggio e anche un invito ideale alla tutela e alla conservazione di quest’antica forma d’arte, sacra e popolare insieme.
Alcuni anni fa, ne arrivò un nutrito gruppo dalla California. Per questi artisti d’oltreoceano mostrare una fotografia che li ritrae al lavoro davanti al santuario di Grazie è segno di prestigio e spesso un notevole lasciapassare professionale.

Tutti i madonnari, italiani e stranieri, incominciano a realizzare i loro capolavori sul far della sera del 14 agosto, subito dopo che il vescovo di Mantova ha effettuato la rituale benedizione dei gessetti. Un po’ di anni fa, nel giugno del 1991, andò in visita al santuario Papa Giovanni Paolo II, il quale si inginocchiò e tracciò sul selciato dei piccoli segni grafici che oggi fanno parte del logo del Centro Italiano Madonnari.
Dopo la benedizione, quando il sole è tramontato e il caldo si fa più tollerabile, i madonnari incominciano a lavorare nel quadrato loro assegnato e chi ce la fa tira diritto per tutta la notte, alla luce dei fari, uno di fianco all’altro in file parallele. Loro sono artisti che vengono a dare spettacolo di pittura, e vanno ammirati mentre lavorano. I madonnari sono ritenuti gli eredi dei pittori di icone bizantine del tardo Medioevo, quei personaggi sempre al verde ma pieni di estro che adoperavano i colori ricavati da terre e pigmenti naturali, senza collante, per riprodurre le opere dei grandi maestri del rinascimento, esponendoli alla vista degli uomini di tutte le categorie sociali.
Uno di questi bazzicava Venezia intorno al 1500, si chiamava Domenico Theotokópulos, ma tutti lo chiamavano El Greco.

La loro era una sorta di inconsapevole missione spirituale che purificava e istruiva di porta un porta, di villaggio in villaggio. I madonnari del nuovo secolo, quelli doc (ormai sempre più rari) sono “cantastorie di strada” e come i girovaghi di un tempo vivono delle offerte dei passanti. Perciò sono spesso visti come accattoni senza meta da guardare con sospetto. Solo da poco sono stati tolti dal ghetto dell’emarginazione grazie ad alcuni interventi del Ministero dei Beni Culturali. Sono diventati artisti con una dignità professionale, ma resta ancora molto da fare.
In ogni caso, alle Grazie, se ne trova ancora un gran bell’assortimento. Visitare questo luogo è anche il modo di entrare in un’altra dimensione. Girando intorno ai madonnari ci si accorge presto che il mondo visto dal basso ha proprio tutta un’altra prospettiva. Capita di veder spuntare dal cemento un’icona mariana dell’ottavo secolo, una Madonna del Perugino in una magica atmosfera virginale, la mano protesa della Madonna di Raffaello o qualche Vergine del Settecento liberamente interpretata. Il tema del raduno, l’iconografia cristiana, è rigidamente stabilito fin dalle origini: non è mai cambiato. E i madonnari di ogni latitudine, anche se di diversa religione, si adattano sempre alla regola. Realizzano opere di soggetto sacro o devozionale, riproducono con maestria i capolavori del passato o traggono ispirazione dalla Bibbia, dal Vecchio o dal Nuovo Testamento.

L’importante è stupire, lasciare su piazze e marciapiedi una effimera ma gradevole impronta che attiri l’attenzione e desti meraviglia, prima di dissolversi nel nulla.

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Vacanze …   19 comments

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Ciao a tutti, ragazzi, sono tornata!

Già, non vi avevo detto che partivo, ma è stato tutto imprevisto. Sono stata qualche giorno in montagna, ho avuto un invito inaspettato dalla sorella di un’amica nella sua casetta sul Monte Baldo, ne ho approfittato per godermi un po’ di fresco … direi freddo, anzi, considerato che la sera dovevo indossare una giacca in pile … l’aria buona, il verde, il profumo dei pini mi hanno rigenerato. E’ stato come sentire l’ossigeno entrare nei polmoni ad ogni respiro! Mi sento proprio bene!

Sono stata in un paesino sulla catena del Monte Baldo, dal lato in cui si può godere delle bellezze naturali che il paesaggio offre, spaziando dalle distese azzurre del Lago di Garda in tutta la sua lunghezza, da Sirmione fino a Riva del Garda, dalle colline moreniche a sud ai boschi di uliveti e alle cime delle prealpi verso nord.

La zona è proprio un balcone sul Lago di Garda ed è caratterizzata dalla presenza di contrade e piccoli borghi, ognuno con una sua identità e caratteristica.

Il Monte Baldo, con i suoi pascoli verdi, i vasti boschi, i castagni secolari e i suoi fiori, rari e straordinari, è conosciuto fin dal passato come “Hortus Europae” (Giardino d’Europa). Le sommità del Monte Baldo si possono raggiungere attraverso suggestivi sentieri, che dalla località Prada, posta a circa 1000 metri, portano l’escursionista fino a quota 1850 metri, da dove si possono ammirare panorami mozzafiato o intraprendere escursioni verso i più alti rifugi alpini. Il pianoro di Prada un tempo era raggiunto solo in estate per lo sfruttamento del bosco e delle risorse foraggiere, mentre ora è punteggiato da residenze permanenti di allevatori, la cui attività si intreccia con quelle indotte dal turismo. Da qui partono molti itinerari escursionistici che, attraverso i boschi di faggio, salgono fino ai pascoli sommitali, da dove si godono splendidi panorami.

Oltre i 1000 metri su entrambi i versanti baldensi troviamo le malghe che risalgono al periodo veneziano e presentano una forma caratteristica con un grande camino sporgente e un’estremità a forma circolare. Qui vivevano con il bestiame e lavoravano il latte gli allevatori del Monte Baldo.

Le diversità di clima e di vegetazione del Monte Baldo sono evidenti percorrendo i sentieri dal Lago alle cime: si parte da una cintura sempreverde di tipo mediterraneo (lecci e olivi), passando ai boschi di querce e castagni, ai maestosi faggi per arrivare a ricche associazioni di pino mugo. Nella parte sommitale gli alberi scompaiono e lasciano il posto a piante di graminacee.

Il Monte Baldo venne frequentato da naturalisti e botanici famosi. Nel periodo glaciale la parte sommitale della  catena montuosa emergeva dai ghiacci, offrendo rifugio per tipi di flora e fauna che altrove scomparvero dando origine a specie floreali endemiche denominate con l’aggettivo “baldensis” ad indicare che sono state rinvenute per la prima volta sul Monte Baldo o che sono esclusive di questa montagna (orchidee in particolare). Oltre a queste si trovano piante medicinali ed aromatiche.

Per quanto riguarda la fauna il Monte Baldo è ricco di microfauna: si contano circa 960 specie di farfalle, svariati tipi di coleotteri ed insetti. La fauna superiore annovera la pernice bianca, il gallo cedrone, lepri, scoiattoli, volpi, tassi e faine. Sono ben insediati il capriolo, la marmotta e da alcuni anni il camoscio. Tutto insomma costituisce un inestimabile patrimonio da godere, ma della cui conservazione ciascuno di noi è responsabile, nel rispetto della natura.

A chi ama passeggiare all’aria aperta, fare escursioni in mountain bike o esplorare il territorio a cavallo la zona offre la possibilità di percorrere sentieri tra i boschi di castagni, di inerpicarsi verso le cime del Baldo tra i prati profumati di fiori o di scendere fino alle rive del lago di Garda, ammirando panorami stupendi.

Il territorio infatti è l’ideale per la pratica di molte attività sportive ed in particolar modo per il trekking e la mountain bike. Dalla primavera all’autunno il clima è mite e stimolante: turisti di ogni età, famiglie e sportivi possono passeggiare alla scoperta degli angoli più nascosti delle diverse contrade, percorrere i facili e pianeggianti sentieri ombreggiati in pineta dove si trovano anche aree pic-nic attrezzate, o spingersi fin sulle cime del Monte Baldo in escursioni più impegnative. L’atmosfera rilassante, il verde della natura e i panorami a tratti mozzafiato fanno da cornice a queste giornate all’aria aperta.

Si possono inoltre gustare i caratteristici prodotti della montagna baldense, come i saporiti salumi e formaggi. I piatti tipici preparati nei ristoranti si accompagnano alle diverse stagioni dell’anno o alle feste tradizionali: in primavera la cucina si profuma delle erbe del Baldo, mentre in autunno si posso assaporare menù a base di funghi e tartufi.

Alla Fiera di San Michel, in Prada, vengono servite le trippe e il “Pito con capussi e pevrà”. Durante la Festa delle Castagne i ristoranti gareggiano nella preparazione di menù a base di questo speciale prodotto di questa montagna, in particolare il gustoso minestrone di castagne, un tempo piatto base dei contadini; il tutto accompagnato dal buon vino e dal puro olio extravergine del lago di Garda.

Ed ecco alcune immagini della zona dove sono stata …

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Pubblicato 5 agosto 2015 da mariannecraven in Viaggiare

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Manarola e …   11 comments

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… Il vino

Il mio amico Gian, del blog vecchiomare, mi ha fatto notare che parlando di Manarola ho dimenticato una importante caratteristica: il vino. E’ vero, gravissima dimenticanza, considerato gli eccellenti vini prodotti nelle Cinque Terre.

Infatti, quello che ha certamente reso famosa questa terra è senz’altro il suo splendido paesaggio, ma certamente anche il suo frutto, il vino delle Cinque Terre: il famoso “Sciacchetrà” e il bianco secco DOC. Il vino delle Cinque Terre è perfino citato per la sua bontà da Petrarca, Boccaccio e D’Annunzio nelle loro opere.

Cinque Terre e’ il nome di un tratto della Riviera Ligure di Ponente che riunisce i comuni di Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore. E’ una terra in cui vengono coltivati vitigni tipici e caratteristici quali l’Albarola, il Bosco e il Vermentino. I primi due hanno origini ignote mentre il Vermentino, introdotto in queste terre solo recentemente, prima era chiamato Piccabon, e non aveva alcuna relazione con il vino prodotto nelle Cinque Terre.

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Le prime notizie certe della presenza di attività viticole nella zona delle Cinque Terre risalgono ai secoli VI -V a.C., quando i Greci, abili navigatori e commercianti, approdano sui lidi della Riviera Ligure, portandosi prima il vino e dopo, dato il minor costo, producendolo in loco.
E’ molto probabile che in seguito i vini della zona avessero trovato una via commerciale del vino nel golfo della Spezia, presso il gran porto di Luni, popolosa e commerciante città dell’Etruria.
Plinio proclama i vini di Luna come i migliori d’Etruria (Etruriae palmam Luna habet).
Alla fine del XI secolo, con la formazione dei Comuni, una rete di rapporti commerciali e culturali favorisce lo sviluppo dell’agricoltura nella zona delle Cinque Terre.
Nel Medioevo si verifica in tutta la Riviera Ligure di Levante una notevole espansione demografica, che determina una ulteriore espansione delle aree coltivabili. Le coltivazioni principali dell’epoca, la vite e l’olivo, probabilmente insieme ad altre colture orticole, sfruttano ogni spazio conquistato nell’acclività del versante, con appezzamenti sostenuti da muretti a secco (fasce terrazzate o terrazze).
Nel XVIII e nel XIX secolo la zona delle Cinque Terre si specializza nella produzione di vino. La massima espansione dei terrazzamenti coltivati avviene nel corso dell’800, con l’espansione demografica.
Molti testi descrivono i vigneti e gli uliveti terrazzati, notando “l’industria dei coltivatori liguri, superiore a quanto si conosca al mondo in questo genere”.

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La produzione del vino è stata la principale, se non unica fonte di sostentamento per la popolazione per secoli, i contadini per poter coltivare le scoscese colline hanno mirabilmente costruito i terrazzamenti con muretti a secco, dalle cime delle colline fino a pochi metri dal mare. P. Riccobaldi nel suo libro “Straniero Indesiderabile” riporta una testimonianza della vita contadina dei primi del 1900.

“Quelli erano tempi veramente duri. La miseria era spaventosa, a Manarola l’unica risorsa era il vino prodotto da terra avara che richiedeva durissimo lavoro e sovrumani sacrifici. Emigrare, cercare lavoro fuori era considerato come una dichiarazione di resa. Perciò quasi tutti rimanevano aggrappati ai oro vigneti, orgogliosi di essere proprietari, di lavorare in proprio.”

Viene tratteggiata una terra che non è affatto avara di frutti se lavorata con assiduità, grande dispendio di energie e razionalità. E’ piuttosto una terra che non da certezze, per certi versi infida, dove anche un muretto a secco, smottando improvvisamente, o un sentiero percorso con poca attenzione, racchiudevano insidie pericolose. Nel 1920 le Cinque Terre furono colpite dalla più grave calamità della loro storia millenaria. In quell’anno la viticoltura fu colpita dalla fillossera, un parassita delle piante, che distrusse irrimediabilmente tutti i tipi di vigna coltivati. All’inizio degli anni ’30 le vigne erano decimate e vasti spazi incolti. Dopo quella distruzione gli abitanti ricostruirono i vigneti con l’impianto delle barbatelle di vite americana poi innestate coi i vitigni locali tradizionali.

La nascita nel 1973 della Cantina sociale nonché Cooperativa Agricola, e la messa in opera di numerose monorotaie con carrelli per il trasporto di materiali e persone, anche su pendenze molto accentuate, hanno ridato impulso, insieme ad altri interventi, all’attività tradizionale per eccellenza delle Cinque Terre: l’agricoltura.
Nel 1999 è stato istituito il Parco nazionale delle Cinque Terre il cui territorio si estende dalla zona di Tramonti di Biassa e di Campiglia, nel comune di La Spezia al comune di Levanto. Il Parco ha la particolarità di essere l’unico in Italia finalizzato alla tutela di un ambiente antropizzato, uno degli scopi è infatti la tutela dei terrazzamenti e dei muri a secco che li sorreggono.
La letteratura sul vino delle Cinque Terre e’ vasta, ma non c’è verso o citazione che possa esprimere l’emozione profonda che dona la vista dei suoi vigneti inerpicati ai limiti del praticabile per coste scoscese che, in pochi metri, si trasformano da scogliera in montagna, evocando il concetto di collina solo per assenza recidiva.

La base ampelografica dei vigneti è caratteristica e riguarda vitigni presenti solo nel territorio delimitato come il Bosco, il Vermentino e l’Albarola che ne evidenziano originalità e legame con la tradizione. Le forme di allevamento sono tradizionali e nel tempo non si sono mai discostate da quelle tradizionalmente utilizzate in passato.
Recentemente le tecniche enologiche, a vent’anni dal riconoscimento DOC nazionale, hanno portato gli operatori a selezionare maggiormente le caratteristiche peculiari che il fattore ambiente esalta e a migliorare in cantina un prodotto che, già dalla vigna e dalle caratteristiche delle uve, ha le note del territorio.

Il vino più pregiato è lo “Sciacchetrà”, (da sciaccà, schiacciare e trà, trarre, tirar fuori) che è un bianco secco, non liquoroso, eccellente e rarissimo che si ottiene dai grappoli migliori. Con il suo colore ambrato e il profumo di frutta fresca e miele, si accompagna degnamente con dolci secchi e formaggi stagionati. Un vino preparato con la migliore uva che si lascia poi passire naturalmente. I grappoli vengono poi sgranati a mano chicco a chicco selezionando gli acini migliori per preparare un vino profumato che va degustato dopo un invecchiamento di almeno un anno. E’ un vino speciale che si produce in modeste quantità nelle cantine dei paesi.

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I vini a denominazioni di origine controllata “Cinque Terre” devono essere ottenuti dalle uve prodotte dai vigneti aventi nell’ambito aziendale, la seguente composizione ampelografica:
Vitigni principali: Bosco per almeno il 40%.
Possono concorrere alla produzione di detti vini anche le uve provenienti dai vitigni Albarola e Vermentino presenti nei vigneti, da soli o congiuntamente, fino ad un massimo del 40%.
Vitigni complementari: quelli idonei per la provincia di La Spezia fino ad un massimo del 20% ed iscritti nel Registro Nazionale delle varietà di vite per uve da vino, riportati nel disciplinare.
Il vino a denominazione di origine controllata “Cinque Terre” può essere designato con una delle seguenti sottozone: “Costa de Sera”, “Costa da Posa”, “Costa de Campu”, se esclusivamente ottenuti da uve prodotte da vigneti situati nelle rispettive zone delimitate nel disciplinare.

Le denominazioni di origine controllata “Cinque Terre” anche con l’eventuale specificazione delle seguenti sottozone: “Costa de Sera”, “Costa de Campu”, “Costa da Posa” e “Cinque Terre Sciacchetrà” anche nelle tipologie “Passito” e “Riserva” è riservata ai vini bianchi ed ai vini bianchi passiti, che rispondono alle condizioni e ai requisiti prescritti dal disciplinare di produzione.

La zona di produzione delle uve destinate alla produzione dei vini a denominazione d’origine controllata “Cinque Terre” e “Cinque Terre Sciacchetrà” ricade nella provincia di La Spezia e comprende i terreni vocati alla qualità degli interi comuni di Riomaggiore, Vernazza e Monterosso nonché parte del territorio del comune di La Spezia.

La sottozona “Costa de Sera” è delimitata dalla strada litoranea La Spezia – Manarola in corrispondenza dell’ingresso della galleria di Lemmen e scende fino al mare, costeggiando il quale, in direzione ovest, si raggiunge la foce del Fosso di Val di Serra che si segue risalendo fino a ritornare alla quota della strada litoranea e da qui in direzione est si ricongiunge con il punto di origine. Risulta compresa nel Comune di Riomaggiore.

La sottozona “Costa de Campu” si sviluppa lungo la strada provinciale La Spezia – Manarola nel punto in cui si supera il Canale del Groppo salendo fino ad incontrare la strada comunale di Fiesse fino alla strada comunale di Campo. Da qui fino alla strada comunale della Callora – Donega, scendendo, fino ad incrociare la strada comunale del Luogo seguendo la quale, in direzione est, si raggiunge, in prossimità della Chiesa, il Canale di Groppo e da qui, risalendo, fino al punto di origine. Risulta compresa nel Comune di Riomaggiore.

La sottozona di produzione “Costa da Posa” si sviluppa dalla strada provinciale Groppo – Volastra – Corniglia in corrispondenza del Rio della Valle Asciutta si scende, seguendo questo, fino al mare costeggiando il quale, in direzione ovest, si raggiunge la foce del Rio Molinello. Risale il Rio fino ad incrociare la strada comunale Vecchia Corniglia – Volastra che si segue, salendo, fino all’intersezione della linea di separazione del Comune di Riomaggiore. Da qui si segue fino a ritornare sulla strada provinciale Groppo – Volastra – Corniglia e da qui, verso est, si ritorna al punto di origine. Risulta compresa nel Comune di Riomaggiore.

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I vini a denominazione di origine controllata “Cinque Terre” devono rispondere, all’atto dell’immissione al consumo, alle seguenti caratteristiche:

“CINQUE TERRE”
gradazione alcolica minima complessiva: 11,00% vol;
acidità totale minima: 5,0 g/l;
estratto secco netto minimo: 15,0 g/l.
colore: giallo paglierino più o meno intenso, vivo;
profumo: intenso, netto, fine, persistente;
sapore: secco, gradevole, sapido, caratteristico.

“CINQUE TERRE COSTA DE SERA”:
gradazione alcolica minima complessiva: 11,50% vol;
acidità totale minima: 5,0 g/l;
estratto secco netto minimo: 15,0 g/l.
colore: giallo paglierino più o meno intenso, vivo;
profumo: intenso, netto, fine e persistente, composito;
sapore: secco, sapido, intenso, gradevole.

“CINQUE TERRE COSTA DE CAMPU”
gradazione alcolica minima complessiva: 11,50% vol;
acidità totale minima: 5,0 g/l;
estratto secco netto minimo: 15,0 g/l.
colore: giallo paglierino più o meno intenso, vivo;
profumo: intenso, netto, fine e persistente, composito;
sapore: secco, sapido, intenso, gradevole.

“CINQUE TERRE COSTA DA POSA”:
gradazione alcolica minima complessiva: 11,50% vol;
acidità totale minima: 5,0 g/l;
estratto secco netto minimo: 15,0 g/l.
colore: giallo paglierino più o meno intenso, vivo;
profumo: intenso, netto, fine e persistente, composito;
sapore: secco, sapido, intenso, gradevole.

“CINQUE TERRE SCIACCHETRÀ:
gradazione alcolica minima complessiva: 17,00% vol di cui almeno 13,50% vol svolti;
acidità totale minima: 5,0 g/l;
acidità volatile massima: 30 meq/l;
estratto secco netto minimo: 23,0 g/l.
colore: giallo dorato con riflessi ambrati, di bella vivacità;
profumo: intenso di vino passito, caratteristico profumo di miele, piacevole;
sapore: da dolce ad abboccato, armonico, di buona struttura e di buon corpo, piacevole e lungo in bocca con retrogusto mandorlato.

“CINQUE TERRE SCIACCHETRÀ” – RISERVA:
gradazione alcolica minima complessiva: 17,00% vol di cui almeno 13,50% vol svolti;
acidità totale minima: 5,0 g/l.;
acidità volatile massima: 30 meq/l;
estratto secco netto minimo: 23,0 g/l.
colore: da dorato fino ad ambrato;
profumo: intenso di vino passito, piacevole, caratteristico;
sapore: da dolce ad abboccato, armonico, di buona struttura e di buon corpo, piacevole e lungo in bocca con retrogusto mandorlato, gradevole.

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A Manarola il 10 agosto si celebra la festa di San Lorenzo, con la processione e la benedizione del mare di giorno e i fuochi d’artificio di notte. In questa occasione si serve la tradizionale torta di riso salata: riso bollito accomodato in sfoglia con uova, olio, sale, pepe, il tutto al forno. Nei ristoranti di Manarola, la cucina è ottima specialmente per i piatti a base di pesto fatto ancora nel mortaio e non nel frullatore. Squisiti anche i piatti di selvaggina, il cui sapore è esaltato dalle erbe naturali del luogo, combinate secondo antiche e preziose ricette.

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Il famoso Sciacchetrà, con il suo colore ambrato e il profumo di frutta fresca e miele, si accompagna degnamente con dolci secchi e formaggi stagionati. La Cooperativa agricola Cinque Terre, in località Groppo, vanta collezioni di Sciacchetrà, di vini Cinque Terre Doc e vende i prodotti tipici del Parco.

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Luoghi poco conosciuti da vedere in Italia   4 comments

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Manarola

Il nostro Paese offre una varietà infinita di luoghi poco conosciuti e tutti da scoprire, come Manarola, per esempio, antico borgo della Riviera Ligure di Levante, una delle più piccole Cinque Terre. Qui sono bandite le auto, ma il sacrificio è ben ricompensato dai colori e dal paesaggio di questo paese affacciato sul mare e distante dal resto del caos della quotidianità.

Un affresco dai colori solari, un paradiso di vitigni ed ulivi, un antico borgo dai colori salini nel quale le case sembrano nascere dalla scogliera della lunga e stretta marina.

Arroccata su uno scosceso promontorio di roccia scura, con il suo piccolo porto racchiuso tra due speroni rocciosi, Manarola è un borgo di antica origine fondato dagli abitanti dell’insediamento, forse romano, di Volastra. Le prime testimonianze storiche su Manarola appartengono alla seconda metà del Duecento e sono legate alle vicende del dominio della famiglia dei Fieschi di Lavagna. Questi ultimi, da tempo in lotta con la repubblica di Genova, furono battuti nel 1273 quando la Superba inviò una flotta di 14 galee per contrastare il ribelle Niccolò Fieschi, signore del borgo.
Sotto Genova, il paese conobbe un progressivo sviluppo, diventando uno dei maggiori produttori di derrate, soprattutto di vino ed olio, e proprio a questa vocazione agricola Manarola deve l’origine del suo nome, che gli storici sostengono derivare da un Manaraea dialettale, precedente all’attuale Manaaea, risalente ad un antico magna Roea, cioè magna rota, grande ruota da mulino ad acqua. Nella parte bassa del paese infatti si può ancora ammirare il vecchio mulino o frantoio, restaurato dal Parco Nazionale.

Manarola si caratterizza per la presenza delle case-torre; la struttura del paese si sviluppa attorno al corso, ora coperto del torrente Groppo che ne definisce l’asse principale; da esso si dipartono una serie di stretti vicoli lastricati in pietra che raggiungono le case sui fianchi del promontorio e degli orti. Parallelo all’asse principale si snoda il percorso della cosiddetta via di Mezzo, che rivestiva grande importanza nella viabilità del borgo prima della copertura del torrente. Interessante è la presenza, a monte dell’abitato, della piazza in cui sono concentrati gli edifici religiosi. In piazza Papa Innocenzo IV, si possono visitare: La chiesa di San Lorenzo, in stile gotico-ligure edificata nel 1338, costituita da tre navate, con un interno barocco dalla volta a botte; il Campanile Bianco a pianta quadrata, antica torre di avvistamento e difesa, eretto nel XIV secolo; il quattrocentesco Oratorio dei Disciplinati della Santissima Annunziata e l’antico Ospedale di san Rocco.

Una curiosità: la piramide in cemento dipinta di bianco che spunta tra le case più alte è un segnale trigonometrico per i naviganti. Dalla stazione di Manarola parte anche la Via dell’Amore, il famoso sentiero che congiunge il borgo a Riomaggiore.

Manarola è senza dubbio il più tranquillo dei paesi delle Cinque Terre. Ciò è dovuto in parte alla tardiva scoperta di Manarola come luogo di soggiorno, ed in parte allo stile sobrio degli abitanti, poco inclini alla confusione.
Molto piacevoli le numerose brevi passeggiate che ruotano intorno a Manarola: rilassanti e poco impegnative, alla portata di tutti.

Da non perdere il grande presepe luminoso (8/12-20/1) che occupa gran parte della collina della ‘Collora’ antistante l’abitato.

A Manarola c’è una bellissima spiaggia piccola e raccolta, poco distante dal porto, nel caratteristico borgo omonimo, nel comune di Riomaggiore, situato al polo estremo orientale delle suggestive Cinque Terre. Si tratta di una bella spiaggia di scogli lisci, molto piccola e circondata dal pittoresco paesaggio del borgo, con le case colorate abbarbicate sulle rocce a picco sul mare. Tutt’ intorno il caratteristico profilo frastagliato della costa rocciosa delle Cinque terre, con speroni di pietra a picco sul mare. Il mare è molto bello, turchese, cristallino, trasparente e con fondali sassosi, ideale per fare il bagno, facendo attenzione all’ingresso in acqua. Raggiungere la spiaggia è semplice arrivando dalla stazione dei treni, attraversando poi per ultimo una stradina un po’ impervia.

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La Via dell’amore è un percorso suggestivo nelle Cinque Terre. Un sentiero di poco più di un chilometro che da Riomaggiore porta a Manarola. La Via dell’amore fa parte del Sentiero Azzurro, uno dei più conosciuti sentieri di trekking nelle Cinque Terre, che unisce Riomaggiore a Monterosso. La prima parte del Sentiero Azzurro è denominato la Via dell’amore: scavata nella roccia tra il 1926 e il 1928 per collegare i due comuni, questo sentiero affascinante si snoda sul fianco di roccia a picco sul mare che divide Riomaggiore con ManarolaLa vista sul mare della Liguria apre il cuore degli innamorati, e anche la loro creatività. Lungo la roccia infatti ci sono moltissime scritte, disegni, cuoricini e giuramenti di amore eterno. Per chi vuole percorrere la Via dell’amore, è meglio arrivare in treno nelle Cinque Terre. Il percorso inizia e finisce lungo le stazioni ferroviarie di Riomaggiore a Monterosso.

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