di Jolanda Colombini Monti – Illustrazioni di Mariapia
Editrice Piccoli (Milano)
Udite l’avventura straordinaria
di Biri, un cane piccolo maltese,
che un giorno si sentì portare in aria…
Era Dicembre, addì venti del mese.
Ancora cinque giorni e poi… Natale!
Lucilla, la sua bionda padroncina,
gli disse: “Biri, tu che sei geniale,
corri a imbucare questa letterina.
E’ per Gesù Bambino. Ascolta bene,
gli ho chiesto qualcosetta anche per te,
perciò spedirla subito conviene.
Va presto e poi ritorna qui da me!”.
Biri era corso fuori sulla neve
cercando il luogo dell’impostazione;
dopo una corsettina svelta e breve
vide un gran sacco messo a penzolone.
Pendeva da una pianta tutta spoglia
ed un cartello aveva lì vicino,
fissato ai rami in luogo d’una foglia.
Diceva: “Posta per Gesù Bambino”.
Biri si sentì pieno d’allegria…
spiccò un bel salto, ma, con grande smacco,
forse a cagion d’eccesso d’energia,
finì, insieme alla lettera, nel sacco!
Provò. Tentò d’uscirne. Inutilmente!
Ad ogni salto sempre più affondava.
Passasse almeno in strada della gente!
Macché, nessuno! Biri mugolava…
E piangi, piangi, alfin s’addormentò…
E chi può dire, dopo, cosa avvenne?
Tra un cumulo di buste si svegliò
e lettere-richiesta dolci e strenne.
Seduto in un cantuccio tutto azzurro
Biri, sorpreso, intorno a sé guardava.
Tese l’orecchio. Percepì un sussurro…
C’era qualcuno che di là parlava.
“Com’è il tuo sacco per Gesù Bambino?”
“Ti dico, caro mio, che un tale peso,
da quando faccio l’Angelo Postino,
non l’ho portato mai. Ne son sorpreso!
Di là l’ho scaricato da un momento;
è stato un volo, credi, da stancare…
Di fare un altro viaggio non mi sento.
Se mi permetti vado a riposare”.
“Dispongo per trovarti un sostituto.
Anche per me, che sono il Segretario,
dovrò cercare un angelo d’aiuto.
Quest’anno c’è lavoro straordinario!”.
Biri, che quei discorsi aveva udito,
capì che in Paradiso si trovava.
Andò a girare intorno incuriosito,
qualcosa in ogni parte l’attirava.
Quanti preparativi per Natale!
Dovunque giochi, treni, trombettine…
ma la scoperta più sensazionale
la fece nel reparto bamboline.
V’erano tanti finti cagnolini
della sua stessa razza, in egual posa;
unica differenza: i collarini
ch’eran verdi mentre il suo era rosa…
Biri sostava, muto, ad ammirare
quei sosia che sembravan vivi e veri,
quando sentì un sommesso parlottare
che ritornar lo fece ai suoi pensieri.
“Qualcuno arriva” disse “Cosa faccio?
Se mi si scopre qui, sono spacciato!
Un’idea! Per togliermi d’impaccio
mi unisco ai finti Biri e tengo il fiato”.
“Vuoi prender nota, caro? Un carrozzino,
una tromba, una bambola e un treno”.
(Son gli angeli che passan lì vicino:
di Biri… non s’accorgono nemmeno!)
Lucilla, dopo aver tanto aspettato
che ritornasse il piccolo suo Biri,
col cuoricino triste ed angosciato
si vede spesso in lacrime e sospiri.
“Biri, Birino mio, perché non torni?
Qualcosa t’è accaduto certamente!”
Dalla finestra guarda tutti i giorni…
Fuori silenzio e neve solamente.
Quando un esser caro s’allontana
e notizie di lui nessuno porta,
la vita come sembra vuota e vana!
Anche se vien Natale, cosa importa?
Vigilia di Natale. Trepidanti
i bimbi di già smaniano d’attesa.
I doni sono pronti tutti quanti,
per Dario, per Maurizio, per Teresa…
Li han preparati in cielo gli angioletti
per ordine del buon Gesù Bambino.
C’è scritto chiaro dove son diretti
perché arrivare possano a destino.
Biri ha un’idea che in testa gli zampilla:
manca a Natale solamente un giorno.
Op! Un salto nel cesto di Lucilla
gli può dare certezza di ritorno!
Ma che sorpresa bella, stamattina!
Lucilla nel suo letto ancora stava
quando sentì tirar la copertina.
Era il suo Biri che la salutava.
“Biri, Birino sei tornato, e quando?
Dove sei stato, caro? Qua un bacetto!”
E il cagnolino allor scodinzolando
le fa le feste e monta sopra il letto.
Vorrebbe raccontare la bestiola
il grande viaggio, ma parlar non sa…
Oh, come è brutto non aver parola!
L’avventura un segreto rimarrà.
Solo quelli che sanno ascoltare e seguire il cuore hanno la capacità di sentire e capire profondamente le altre persone. Solo chi sa fare silenzio dentro di sé e ascoltarsi, raggiunge la consapevolezza di sé stesso e del mondo intorno a sé, senza giudicarlo. Solo chi sa ascoltare le proprie emozioni e dedica tempo ad osservare ed ascoltare quelle di chi gli sta intorno, entrerà autenticamente in sintonia con gli altri e rafforzerà anche la propria intuizione.
E’ necessario che impariamo a comprendere noi stessi, prima di provare a fare altrettanto con chi ci circonda. Se abbiamo cuore, non possiamo perdere niente, dovunque andiamo. Possiamo solo trovare. Il nostro cuore conosce tutte le cose.
L’incapacità dell’uomo di comunicare è il risultato della sua incapacità di ascoltare davvero ciò che viene detto. Ascoltare in modo attivo vuol dire dedicare il propriotempo a qualcun altro.
Chi sa ascoltare è in grado di “mettersi nei panni dell’altro”, apre cuore e mente ancor prima delle orecchie.
Chi sa ascoltare ha una maggiore sensibilità ed è per questo in grado di andare oltre ciò che viene espresso con le semplici parole.
Ascoltare l’altro è una bellissima manifestazione di rispetto; è un segnale di attenzione verso l’altro ed è il modo migliore per creare relazioni vere e durature.
Si sente con le orecchie e si ascolta con il cuore e con la mente. Saper comunicare da cuore a cuore trasforma la mente di chi ascolta e l’animo di chi parla.
Troppo spesso si cerca di affermare il proprio ego personale sugli altri … convinti di avere sempre la risposta giusta, al momento giusto e per ogni interrogativo …
Il silenzio dovrebbe essere la condizione utile e lo spazio necessario per il vero ascolto, ma troppo spesso ci fa paura. Il silenzio, invece, è pienezza, non povertà. E’ proprio quando il silenzio esteriore si crea, che si possono sentire le parole, la melodia …
Solo chi, nel silenzio, scava profondamente nel proprio cuore, può sentire le emozioni nel cuore degli altri, solo chi apre il cuore all’ascolto, e si commuove, può sentire la magia del bosco, la melodia degli alberi, il canto delle foglie d’autunno, solo chi ha capito che il silenzio e l’ascolto, a volte, valgono più di mille parole, diventa una persona “speciale”. E solo le persone “speciali” possono sentire la musica sprigionarsi dall’albero d’oro.
***
***
L’albero che cantava
C’era una volta un albero un po’ particolare, e vi dirò subito perché: sapeva cantare! All’arrivo della primavera, dunque, al primo tepore del sole, le sue tenere foglioline cominciavano ad aprirsi e intonavano un coro che si espandeva per tutto il giardino.
Dapprima iniziavano fievolmente, poi, mano a mano che crescevano e diventavano delle robuste foglie verdi, anche le loro voci si facevano sempre più sonore e armoniose rallegrando così le giornate di quel luogo ameno.
Vicino a quest’albero canterino c’era una di quelle piante grasse con quei tremendi aculei che sembravano sempre pronti a colpire chi si avvicinava troppo. Ebbene questa pianta era l’unica nel giardino che non apprezzava per niente le canzoni di questo albero e pertanto continuava a brontolare come una pentola di fagioli. – Verrà anche l’autunno – borbottava tra sé – così questa musica smetterà -. E intanto diventava sempre più gonfia di stizza e i suoi spini sembravano pronti a schizzar via per pungere qualche malcapitato.
Verso settembre arrivò nel giardino il primo venticello portando un po’ di tremore dappertutto.
La voce delle foglie dell’albero canterino cominciò a indebolirsi. E il sole, impietosito, cercò di donare loro tutto il calore di cui era capace in quel periodo dell’anno, facendole diventare splendenti come l’oro. E così poterono continuare a gorgheggiare contente.
In ottobre passò da quelle parti un signore molto distinto assieme ad un suo amico che indossava dei vestiti un po’ larghi, aveva i capelli lunghi e amava dipingere quadri.
Giunti davanti all’albero che sapeva cantare, si fermarono estasiati dallo splendore delle foglie che il sole non smetteva di accarezzare.
– Che meraviglia! – disse il signore elegante. – Davvero splendido! – replicò il pittore.
A quei complimenti le foglie arrossirono di piacere e alcune svennero per l’emozione, cadendo a terra.
– Domani potrai venir qui con il tuo cavalletto e con i tuoi pennelli – disse il signore elegante al pittore.
– Verrò volentieri e ti ringrazio – rispose questi.
– Ecco care – disse la pianta grassa – domani ci faranno il ritratto. Potreste almeno per un giorno smettere di cantare? –
– Smettere di cantare? Perché? – risposero le foglie – noi domani faremo del nostro meglio per regalare a quei signori gentili le nostre più belle melodie -. La pianta grassa bofonchiò rassegnata; tanto con quelle era proprio inutile discutere.
L’indomani era una giornata meravigliosa. Sullo sfondo del cielo turchese e alla luce del sole tutti gli alberi splendevano dei colori più belli e l’albero canterino spiccava fra tutti per la sua luminosità.
Arrivò il pittore con il suo cavalletto sul quale sistemò una tela bianca di media grandezza; si sedette su una panchina di fronte all’albero che cantava e, presi pennelli e tavolozza, iniziò a dipingere. Lo spettacolo era davvero mozzafiato; le foglie arrossivano sempre di più nel sentirsi così al centro dell’attenzione, e cantavano sommessamente.
Disse la pianta grassa: – meno male che oggi almeno cantate più piano e non mi rompete i timpani con i vostri strilli ! –
Alla fine della giornata il pittore regalò il quadro al suo amico che ne fu molto contento, mentre la notte abbassò le palpebre a tutti gli abitanti del giardino, che si addormentarono pacifici.
L’autunno e l’inverno avanzavano a grandi passi e il vento che li accompagnava faceva cadere le foglie di quasi tutti gli alberi. Solo la pianta grassa rimaneva imperterrita, assieme alle piante sempreverdi che sonnecchiavano silenziose.
Anche le foglie canterine caddero una ad una e, mentre si adagiavano sul terreno intorno al tronco dell’albero, continuavano a cantare piano piano, finché si addormentarono tranquille; sapevano infatti che l’albero conosceva a memoria le loro canzoni e le teneva ben custodite per la primavera successiva.
La pianta grassa, che ormai non poteva più sentirle, disse: – meno male che almeno adesso posso dormire in pace – e, distolto lo sguardo dai rami spogli dell’albero, cominciò a russare come un trombone stonato.
In una bella casa, non molto lontano dal giardino, quel signore elegante di cui abbiamo parlato poco fa, una sera invitò a cena amiche ed amici con le rispettive famiglie. E in quell’occasione mostrò loro il dipinto fatto dal suo amico all’albero dai colori splendenti.
Tutti guardarono il ritratto con ammirazione. Fra i presenti c’era anche una ragazzina che amava molto dipingere e alla vista del quadro proruppe in una esclamazione di meraviglia : – Ma è bellissimo! Quell’albero ha i colori dell’oro e sembra quasi che sprigioni una musica! -. Non si era resa conto, come noi sappiamo, di aver detto proprio la verità. E fu così che il nostro albero poté continuare a cantare felice nel quadro, in ogni stagione, ma solo le persone speciali riuscivano a sentirlo.
Giancarlo Giannini – Il rumore del cuore (Edgar Allan Poe)
***
“Il rumore del cuore” o “Il cuore rivelatore” è forse il più famoso racconto di Poe. Fu pubblicato la prima volta in The Pioneer di James Russell Lowell, nel 1843. Leggendolo, trasmette già inizialmente la voglia di sapere come finisce, cosa succederà alla fine di tutto, una sorta di angoscia per capire e vedere il finale, in una suspense in continuo crescendo.
L’assassino uccide perché ossessionato da un occhio chiaro, che secondo lui lo segue dappertutto. Dopo l’uccisione si sente ancora perseguitato, ma da un rumore. Quando la polizia gli fa delle domande, inizialmente riesce a star calmo, se non fosse per quel rumore che continua a sentire …bum, bum, bum … il cuore della persona che ha ucciso.
Il modo in cui è fatto il racconto, con l’atmosfera che crea, tiene la suspense fino alla fine. Il rumore del cuore, che il lettore immagina, lo porta quasi a sentire l’angoscia provata dal protagonista. Quanto può essere maniacale un’ossessione e quanto un maniaco può essere preda delle sue ossessioni?
Ascoltando il monologo si capisce che sarebbe stato un delitto perfetto, se la pazzia non fosse, in fin dei conti, l’esasperazione dei sensi. E quindi l’ossessione ha il sopravvento. E provoca nelle orecchie dell’assassino le pulsazioni del cuore del vecchio smembrato, nascosto senza vita sotto al pavimento. E cosa sono allora questi battiti che aumentano in intensità, sino al parossismo di una confessione urlata dal colpevole a squarciagola di fronte ai poliziotti?
Il rumore è il tarlo che gli ricorda la sua colpa … è il rimorso per quello che ha fatto … e che non si può nascondere … è la vergogna che gli rimorde la coscienza. Lo spazio sotterraneo è quella parte del cuore, o della mente, del protagonista, dove pensava di poter nascondere la sua colpa, ma da dove in realtà viene gridato il suo delitto.
Poe sa tendere a un punto tale l’arco della lucida, ossessionante analisi dei meandri tortuosi della psiche umana, da conferire al racconto un tono altamente impressionante e drammatico. In molti, infatti, giudicano il testo come uno dei migliori mai scritti dall’autore americano. Certamente è uno dei più famosi.
Viverlo attraverso l’interpretazione di Giancarlo Giannini è un’esperienza straordinaria e indimenticabile.
Giannini è un grandissimo attore, un’icona del cinema italiano. Attore, regista, doppiatore, ma anche perito elettronico, inventore, fotografo, pittore e Re del Pesto, sì proprio il pesto per le trenette! Un uomo dalle mille sfaccettature, che forse non voleva diventare un divo, ma che, di fatto, è riconosciuto come uno dei mostri sacri del cinema italiano nel mondo.
Una figura eclettica ed esplosiva.
Non dimentichiamo che Giannini proviene dal Teatro, pochi attori hanno in Italia la sua capacità di passare da ruoli comici a drammatici e persino introspettivi, sfoderando una gamma di capacità attorali non comuni, dovuta al lavoro di scavo fatto con il teatro.
Protagonista, in questo caso, di un programma televisivo, “Racconti Neri”, trasmesso una decina di anni fa da FoxCrime, canale tematico di SKY Italia nel quale Giannini, con la sua voce inconfondibile e la straordinaria espressività e intensità del suo volto, ha fatto rivivere le più belle pagine della letteratura noir, frutto dell’ingegno e dalla fervida fantasia di scrittori del calibro di Edgar Allan Poe, Arthur Conan Doyle, Guy de Maupassant, Ambrose Bierce e Gustav Meyrink. Storie nere di delitti efferati, storie di uomini che incontrano i loro incubi, deliri di assassini che si intrattengono con le proprie vittime prima di tagliarne la gola, di assassini che si confrontano con i cadaveri delle loro vittime, di segreti che vengono a galla in circostanze misteriose attraverso visioni oniriche e spettrali.
I racconti e la voce di Giannini tratteggiano ed evidenziano le diverse sfumature che tingono di mistero l’apparente normalità dell’esistenza. La scenografia è spoglia ed essenziale, caratterizzata da luci radenti e ombre marcate, per lasciare il centro della scena alla narrazione e all’attore, senza ulteriori immagini che si frappongano alla potenza della sua gestualità e della sua voce.
Mai nessun attore italiano ha abbracciato la pienezza della recitazione fisica e vocale come Giancarlo Giannini. La voce, uno strumento d’arte che si estrinseca in modi alquanto diversi, un talento ed anche una passione, io credo, per Giancarlo Giannini, vera passione. Perché un altro artista che possa leggere con più efficacia, sono certa, non calcherà le scene mondiali, mai più.
“Nonno, perché gli uomini combattono?”
Il vecchio, gli occhi rivolti al sole calante, al giorno che stava perdendo la sua battaglia con la notte, parlò con voce calma.
“Ogni uomo, prima o poi, è chiamato a farlo. Per ogni uomo c’è sempre una battaglia che aspetta di essere combattuta, da vincere o da perdere. Perché lo scontro più feroce è quello che avviene fra i due lupi.”
“Quali lupi, nonno?”
“Quelli che ogni uomo porta dentro di sé.”
Il bambino non riusciva a capire.
Attese che il nonno rompesse l’attimo di silenzio che aveva lasciato cadere fra loro, forse per accendere la sua curiosità.
Infine, il vecchio che aveva dentro di sé la saggezza del tempo riprese con il suo tono calmo.
“Ci sono due lupi in ognuno di noi. Uno è cattivo e vive di odio, gelosia, invidia, risentimento, falso orgoglio, bugie, egoismo.”
Il vecchio fece di nuovo una pausa, questa volta per dargli modo di capire quello che aveva appena detto.
“E l’altro?”
“L’altro è il lupo buono. Vive di pace, amore, speranza, generosità, compassione, umiltà e fede.”
Il bambino rimase a pensare un istante a quello che il nonno gli aveva appena raccontato.
Poi diede voce alla sua curiosità ed al suo pensiero.
“E quale lupo vince?”
Il vecchio Cherokee si girò a guardarlo e rispose con occhi puliti.
“Quello che nutri di più.”
Posso aiutarti a dipingere, Sakumat? – chiese un giorno Madurer.
Questi fiori gialli sono facili da fare… Ne posso dipingere uno anch’io?
Dipingerai il fiore giallo, e anche altri fiori, se vuoi.
lo ti insegnerò e, quando i tuoi fiori andranno bene, mi aiuterai a fare quelli del
prato – disse il pittore.
Così Sakumat, un poco ogni giorno, insegnò a Madurer a dipingere i fiori, e gli steli dell’erba; e poiché fiori e farfalle non sono molto diversi, anche le farfalle.
Ci vollero tre settimane perché Madurer fosse soddisfatto delle proprie capacità, e cominciasse ad aggiungere piccolissimi fiori e farfalle al prato, che era diventato un maturo campo di giugno, ricco di vita colorata.
Nessun fiore mancava ormai nello spessore dell’erba.
La sua pittura si faceva ogni giorno più coraggiosa, mescolandosi a quella di Sakumat, spettinando un po’ l’ordine delle forme, il tessuto del verde, come se qui e là una grossa lepre avesse saltellato o si fosse fermata ad annusare i pericoli del campo.
E il prato, luminoso, assomigliava sempre più a una foresta d’erbe e di corolle.
Madurer, un giorno, cominciò ad aggiungere delle spighe sottili dorate che spiccavano nell’erba e spingevano, però non troppo, la loro cima nell’azzurro del cielo.
È arrivato il grano, nel nostro prato? disse sorridendo Sakumat, che si fermava qualche volta alle spalle del bambino, a guardarne il lavoro..
L’ha portato il vento fino a qui, dalla grande vallata.
Chi ha vissuto una sera d’estate in riva a un lago sa che cosa sia la beatitudine. Un calore fermo, avvolgente, sale in quell’ora dalle acque che sembrano lasciate lì, immobili e qua e là increspate dall’ultimo fiato di vento che il giorno andandosene ha esalato e il loro aspetto è morto e grigio. Si prova allora, più che in qualunque altro istante della giornata, quella dolce infinita sensazione di riposo auditivo che danno le lagune, dove i rumori non giungono che ovattati.
Come sanno d’acqua le parole che dicono i barcaioli che a quell’ora stanno a chiacchierare sulla scaletta!
Come rimbalzano chiocce nell’aria!
I rintocchi delle squille lontane arrivano all’orecchio a grado a grado e rotondi, scivolano dall’alto del cielo pianamente a guisa di lentissimi bolidi.
La sera scorre placida, è tutta un fluire di cose silenziose a fior d’acqua. Naufraga d’un tratto in un chiacchiericcio alto, intenso, diffuso, simile al clamore d’una festa lontana, appena s’accendono i lumi, tra le risate e le voci varie e gaie che escono dagli alberghi, dopo cena, e il fragore d’un pianoforte meccanico che giunge dall’altra riva.
Poi tutto sfuma e rientra ben presto nel gran silenzio lacustre, dove più non si ode che il battere degli orologi che suonano ogni quarto d’ora: a poca distanza l’uno dall’ altro, da tutti i punti della sponda, e quel soave, assiduo scampanio delle reti che i pescatori lasciano andare di sera alla deriva, che fa pensare insistentemente a un invisibile gregge in cammino.
L’aria, calda per tutto il giorno, opprime gli alberi, piega le corolle dei fiori, grava sulle mie spalle.
Mi avvicino alla finestra con un senso di disagio.
Ecco, lì a occidente, la spiegazione.
Strati su strati di nuvoloni giganteschi si addensano, si gonfiano, s’impennano nel cielo azzurro creando figure fantastiche.
Ben presto le nuvole coprono il sole del tardo pomeriggio, e la giornata si oscura anzitempo.
Una raffica di vento frusta la polvere lungo la strada.
Una porta sbatte, le tendine si gonfiano e ondeggiano.
Corro a chiudere le finestre, a ritirare la biancheria stesa.
Smorzato dalla distanza, mi giunge il cupo brontolio del tuono.
Le prime gocce di pioggia sono spropositate; si spiaccicano nella polvere, rigano le finestre, tambureggiano rade sulla tettoia del patio.
Poi più veloci, come un rullo di tamburo in crescendo, le singole gocce diventano un esercito in marcia sulla campagna e sui tetti.
Qualche attimo dopo il cielo sembra spaccarsi, e io sussulto di paura.
Non più appostato in lontananza, il tuono fa tremare i vetri e manda il cane a nascondersi sotto il letto. Lo scoppio successivo è ancora più vicino e io faccio un involontario passo indietro.
So che non dovrei stare vicino alla finestra per ragioni di sicurezza, ma non so rinunciare allo spettacolo.
La pioggia diventa un torrente agitato a capriccio da un vento sempre più forte.
Insieme, pioggia e vento martellano gli alberi e piegano l’erba.
Dai tetti e dalle grondaie scende acqua furiosa, e il rovescio contro le finestre così fitto e continuo che non riesco a vedere nulla.
Nello scrosciare uniforme si inserisce ora il rumore della grandine sul tetto.
Chicchi bianchi rimbalzano contro l’erba e bucherellano le pozzanghere.
Ma ormai il temporale ha perso lena.
La tensione presente nell’atmosfera si è scaricata.
Le cortine di pioggia lasciano filtrare più luce, e il tuono brontola per l’ultima volta. …
Mi vien voglia di uscire mentre ancora piove.
Una nebbiolina di gocce polverizzate mi bagna nonostante il riparo della tettoia, ma è fresca e gradita. Respiro a fondo e guardo il sole che si riaffaccia negli squarci tra le nuvole.
Un raggio colpisce le goccioline formatesi sull’orlo del tetto, che diventano ciascuna un piccolo spettro di colori, la mia schiera privata di arcobaleni.
Tutto intorno a me sembra rinato, e anch’io mi sento così.
Provo un senso di pace infinita.
Era un giorno di primavera, le erbe si svegliarono, c’era un leggero soffio di vento, le erbe videro passare una farfalla e le chiesero :
– Ti puoi fermare un po’ con noi?
La farfalla disse:
– No! Perché non siete fiori.
Poi le erbe chiesero all’ ape:
– Vuoi stare insieme a noi?
– No! Perché non avete il nettare.
Le erbe erano tristi e con le lacrime che caddero a terra, formarono un fiore; le erbe gli chiesero:
– Vuoi vivere con noi?
– Si! – rispose.
Le erbe saltarono dalla felicità e gli fecero mille complimenti e i petali divennero rossi per l’emozione.
Da quel giorno le erbe chiamarono quel fiore Papavero.
Un giorno un brav’uomo se ne andava in groppa al suo asinello e, passando accanto a un giardino, vide un ramo che attraverso la cancellata si spenzolava sul sentiero, ed era carico di magnifiche pere. Vederle e averne voglia fu la stessa cosa. Alzandosi un po’ sulla sella, l’uomo afferrò il ramo con una mano, e con l’altra afferrò la pera più bella. Ma non fece in tempo a coglierla, perché l’asino, ombroso, chissà di che cosa si spaventò e scappò via al galoppo. Per non cascare, l’uomo dovette afferrarsi con tutte e due le mani al ramo.
Mentre se ne stava appeso a quel modo, sgambettando, accorse il giardiniere e gli gridò: – Ehi, tu, che cosa fai sul mio albero?
– Amico mio, non mi crederai: sono caduto dall’asino!
Il giardiniere non volle credere che si potesse cadere all’insù. Prese un bastone e gliene diede né tante né poche.
State attenti anche voi: c’è modo e modo di cadere dall’asino.
Vivevano una volta in un lago due anatre e una tartaruga. Erano molto amiche e vivevano felici. Ma un giorno il lago cominciò a prosciugarsi e le anatre decisero di andare a vivere da un’altra parte. Andarono a salutare la tartaruga che era triste per la loro partenza.
Le anatre le proposero di andare con loro ma ad una condizione: non doveva aprire bocca per nessun motivo!
Presero un piccolo bastone e lo porsero alla tartaruga perché con la bocca vi si aggrappasse; poi tenendo col becco il bastone da una parte e dall’altra si levarono in volo.
Volavano oramai da un po’ di tempo, quando alcuni bambini che giocavano in un prato, li videro ed esclamarono:
“Guardate… una tartaruga che vola!”
“A voi che importa!” gridò la tartaruga, ma detto questo cadde di sotto nel campo.
Mentre tutta dolorante si trovava a terra pensò: “Ecco cosa succede a chi apre troppo la bocca”.
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