… e il profeta disse: “Nascerà da umile dimora un bambino che diverrà il Salvatore del mondo, il Re dei Re! Al suo apparire ci saranno schiere di Angeli ad accoglierlo sulla terra e si verificheranno cose mai viste prima”.
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Dal Vangelo secondo Matteo – 2
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”.
All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta”: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”.
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Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra.
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Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”.
Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Dall’ Egitto ho chiamato mio figlio.” Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: “Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.” Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino”. Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: “Sarà chiamato Nazareno”.
Il travolgente Soweto Gospel Choir nasce dove la tradizione del Gospel incontra il ritmo dell’Africa. Nata nel 2002, fondata da David Mulovhedzi, questa realtà, vincitrice di due Grammy Award, e dell’Emmy Award televisivo per la sua collaborazione con Bono e U2 e una nomination all’Oscar per il suo lavoro con Peter Gabriel, propone la travolgente forza della musica africana filtrata attraverso il fascino eterno del Gospel: gli oltre 30 cantanti, ballerini e percussionisti sono i migliori artisti che operano nelle numerose chiese di Soweto. Eseguono un repertorio quanto mai seducente e sfaccettato che bene riflette l’anima, la storia e la cultura del Sudafrica (la Rainbow Nation) attraverso un ritmo sempre vivace, una stupefacente danza e soprattutto una preziosa ricerca vocale.
Soweto è un’area urbana della città di Johannesburg, in Sudafrica. È la più grande township del Sudafrica e ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della lotta all’apartheid. Il nome “Soweto” è una contrazione di “South Western Townships” (“township sudoccidentali”). Lì è iniziata la lungamarcia che ha portato alla svolta radicale in Sudafrica.
Applaudito in tutto il mondo da oltre 400.000 persone, il Soweto Gospel Choir, con un repertorio che include canzoni tradizionali tramandate di generazione in generazione, African Gospel, canzoni della libertà sudafricana, reinterpretazioni uniche di classici internazionali, incluso il classico “Pata Pata” di Miriam Makeba, e anche brani famosi a livello internazionale come “Bridge Over Troubled Waters” e “Many Rivers To Cross”, si è esibito nelle più grandi sale da concerto del mondo, oltre che come headliner in festival come il Montreal Jazz Festival e l’Edinburgh Fringe, collezionando anche grandi collaborazioni. Soweto Gospel Choir si è prodotto in concerti alla presenza di leaders del mondo tra cui Nelson Mandela, Desmond Tutu, i presidenti Obama e Clinton e la famiglia reale britannica.
L’inaugurazione dei mondiali in Sud Africa nel 2010 è stata un’occasione per vederlo all’opera per la prima volta in mondovisione, ma è dal vivo che le 30 potenti voci riescono a trasmettere l’emozione della musica. Non si riesce a non battere le mani e a stare seduti sulla sedia: il concerto di questi artisti africani è una festa per gli occhi e per l’anima. Gioia: è questa la caratteristica principale che questo coro riesce a trasmettere.
Chi assiste ad uno spettacolo del Soweto Gospel Choir viene travolto dai colori e dai suoni, ma soprattutto ha l’impressione di assistere ad un evento festoso, ad una sorta di appuntamento tra amici che amano cantare e coinvolgere gli altri in allegria.
L’incontro con il Soweto Gospel Choir è di quelli che lasciano una emozione profonda. Gospel trascinanti, carichi di energia, suggeriti da una superba forza ispiratrice, che esprimono l’amore per il prossimo e il desiderio di convivenza e armonia fra i popoli.
Impossibile non subirne il fascino. Scuote le anime, tocca il cuore, suscita entusiasmo. I protagonisti hanno la straordinaria capacità di trasmettere al pubblico tutta la bellezza e la passione che caratterizzano quell’Africa così lontana ma anche, nel sentire, così vicina a noi.
Donne piccole come stelle
c’è qualcuno le vuole belle,
donna solo per qualche giorno
poi ti trattano come un porno.
Donne piccole e violentate,
molte quelle delle borgate
ma quegli uomini sono duri,
quelli godono come muli.
Donna come l’acqua di mare,
chi si bagna vuole anche il sole,
chi la vuole per una notte,
c’e chi invece la prende a botte.
Donna come un mazzo di fiori,
quando è sola ti fanno fuori,
donna, cosa succederà
quando a casa non tornerà?
Donna fatti saltare addosso,
in quella strada nessuno passa,
donna fatti legare al palo
e le tue mani ti fanno male.
Donna che non sente dolore
quando il freddo gli arriva al cuore,
quello ormai non ha più tempo
e se n’è andato soffiando il vento.
Donna come l’acqua di mare,
chi si bagna vuole anche il sole,
chi la vuole per una notte
c’è chi invece la prende a botte.
Donna come un mazzo di fiori,
quando è sola ti fanno fuori,
donna, cosa succederà
quando a casa non tornerà?
Donna come l’acqua di mare,
chi si bagna vuole anche il sole,
chi la vuole per una notte
c’è chi invece la prende a botte.
Donna…
Donna come un mazzo di fiori,
quando è sola ti fanno fuori,
donna, cosa succederà
quando a casa non tornerà?
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Il testo di Gragnaniello non lascia indifferenti, da grande autore quale è, il cantautore napoletano riesce, da osservatore esterno, a raffigurare la visione femminile in determinati rapporti con un certo tipo di uomini: rapporti fatti di umiliazioni, soprusi o privi di alcuna forma di rispetto verso la donna. Da uomo, Gragnaniello osserva, quindi, l’irriguardosa superficialità con la quale alcuni uomini si avvicinano alla donna vedendola spesso solo come strumento sessuale ignorandone la dignità ed i sentimenti. Una visione affascinante quanto schietta di una determinata realtà che continua a mietere vittime ogni giorno creando gravi disordini nell’animo e nella psiche delle donne che sfortunatamente incappano in questo tipo di situazioni. Gragnaniello, per l’esecuzione di questa canzone, non poteva fare scelta migliore che affidarla alla voce raffinata e penetrante di Mia Martini che la rende un capolavoro assoluto.
Vista la rilevanza del brano, Mimì, lo reinterpreta anche in duetto con Gragnaniello regalando una perla assoluta alla storia della musica italiana. Proprio questa versione, infatti, è quella più diffusa ed apprezzata vista l’unione di due grandi artisti che viaggiano sulla stessa lunghezza d’ onda emotiva ed interpretativa.
Come racconta la stessa Mimì: “Nel brano non vi è descritto un solo tipo di donna, si parla di diverse violenze che si fanno alle donne e non solo quelle fisiche; come diceva il grande Lennon: la donna è il negro del mondo. La donna è la cattiva coscienza, è la madre; la donna è colei che deve capire, è il trait d’union, è quell’equilibrio…; la donna è la follia, la tentazione; la donna è il dubbio ma è anche la soluzione. Mi ritrovo in questo testo e lo sento perché ho subito delle violenze sia come artista che come donna.”
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“Donna che non sente dolore … “
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Oggi è una ricorrenza … e domani? Non dimentichiamo!
Anche per te, Mimì, grande artista e grande donna!
di Konstantinos Kavafis
traduzione di Guido Ceronetti
Se Itaca è la meta del tuo viaggio
formula voti sia una lunga via;
peripezie e scoperte la gremiscano.
Lestrìgoni , Ciclòpi, e di Poseidone
accessi d’ira escludili.
Renderli vani è in te se via facendo
col pensiero li domini, se carne e spirito
risucchi la vertigine.
Mai vedresti Lestrìgoni e Ciclòpi
se Psiche in te non li generasse,
né l’irascibile Poseidone ti sbatterebbe
se Psiche in te non lo drizzasse orrendo.
Vòglila lunga, la via.
E i mattini d’estate mai finiscano
in cui ti accolgano finora ignoti
porti che di dolcezze ti sfiniscano.
A ogni suk dei Fenici sosterai,
ci farai begli acquisti di coralli,
di madreperle, d’ebani, di ambre.
E di profumi che stordiscano pigliane
a sacchi, di più godrai.
Ma nelle città egizie tu errabondo
viandante agli eruditi
rivolgiti, e da loro impara,
impara senza fine.
Della tua mente avrai stella polare
Itaca – sempre. Là devi approdare,
termine ultimo tuo prescritto.
Il viaggio
fallo anni durare, ritorna vecchio
nella tua isola, gli accumulati
lungo la via tesori
li sbarcherai con te, perché da Itaca
ricchezze non puoi sperare.
Il dono d’Itaca è il viaggio che fu bello.
Senza di lei, per te, quale cammino?
E null’altro sarà il suo dare.
Pur così povera mai ti avrà deluso.
Ora tu sei di vita e di sapienza
talmente ricco! E certo non ti è ignoto
il senso che ogni Itaca tramanda. ***
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Kavafis ci induce al viaggio verso Itaca evocando, con splendore tutto mediterraneo, mattine d’estate, mercati fenici in cui si commerciano madreperle, corallo, ebano, ambra. Il riferimento mitologico è il famoso viaggio di Ulisse nell’Odissea. Itaca, l’isola di Ulisse, diventa, nella poesia, metafora della vita stessa in cui ciò che conta non è tanto la meta, ma il viaggio. Il senso di Itaca, infatti, è quello di fungere da stimolo per il viaggio, più che da meta da raggiungere fine a se stessa. E’ la vita, concepita come viaggio verso una meta che si raggiungerà dopo lunghe peregrinazioni. Il viaggio di Ulisse, dunque, come metafora della nostra vita, racconta una verità che fa quasi paura. Tutta la nostra vita è un viaggio! Quando ci prepariamo ad affrontarne l’ itinerario, in realtà ci accingiamo ad affrontare un percorso alla scoperta dei nostri pensieri, di noi stessi. Perciò non dobbiamo avere fretta di giungere a destinazione e alla nostra Itaca, ma dobbiamo semplicemente goderci il viaggio, e quindi la vita, per esplorare il mondo, crescereintellettualmente, cambiare e ampliare il nostro patrimonio di conoscenze. Un viaggio è sempre una raccolta di emozioni, di sensazioni inebrianti, vive, di colori, luci, odori, sapori, suoni! È giusto apprendere il più possibile durante il viaggio, vivere esperienze, tenendo sempre presente il sentimento forte e deciso che ci porterà a destinazione. “Itaca” è un viaggio nel quale non è importante se la meta è poi deludente, è proprio grazie ad Itaca che ci siamo messi in viaggio, e la destinazione sarà la causa di tante belle esperienze vissute lungo il cammino. Ogni giorno in cui, prima di addormentarci, ci renderemo conto di aver appreso qualcosa di nuovo, potremo essere consapevoli di essere cresciuti, di essere diventati più esperti e più saggi, e quando giungeremo alla fine del nostro percorso, saremo soddisfatti per l’aver viaggiato, ovvero per l’aver vissuto, anche se la nostra meta non ci sembrerà più così ricca come l’avevamo immaginata! A quel punto, infatti, avremo già maturato in noi questa consapevolezza, non ci importerà che Itaca sia ricca o povera, perché saremo noi ad esserci arricchiti. E, in fondo, cosa è più bello? Il luogo in cui arriveremo o quello che ci accadrà durante il viaggio che stiamo compiendo? Ci sono cose che il tempo non restituisce. E lo fa per insegnarci quanto siano preziose le nostre scelte, le azioni che compiamo ogni giorno. Ognuno di noi deve coltivare un sogno, uno scopo, una meta nella propria vita, sapendo che non importa come e quando raggiungeremo la nostra destinazione, perché ciò che conta è come affronteremo il viaggio per raggiungerla. Ciò che conta davvero è vivere e “come” si vive.
Lyrics by Joan Baez, Music by Ennio Morricone
Interpreted by Joan Baez
Here’s to you, Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph
Here’s to you, Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph
Here’s to you, Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph
Here’s to you, Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph
Here’s to you, Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph
Here’s to you, Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph
Here’s to you, Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph
Here’s to you, Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph
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Questo è per voi
Testo di Joan Baez, Musica di Ennio Morricone
Interpretata da Joan Baez
Questo è per voi, Nicola e Bart
Riposate per sempre qui nei nostri cuori
L’ultimo e finale istante è vostro
Quell’agonia è il vostro trionfo
Questo è per voi, Nicola e Bart
Riposate per sempre qui nei nostri cuori
L’ultimo e finale istante è vostro
Quell’agonia è il vostro trionfo
Questo è per voi, Nicola e Bart
Riposate per sempre qui nei nostri cuori
L’ultimo e finale istante è vostro
Quell’agonia è il vostro trionfo
Questo è per voi, Nicola e Bart
Riposate per sempre qui nei nostri cuori
L’ultimo e finale istante è vostro
Quell’agonia è il vostro trionfo
Questo è per voi, Nicola e Bart
Riposate per sempre qui nei nostri cuori
L’ultimo e finale istante è vostro
Quell’agonia è il vostro trionfo
Questo è per voi, Nicola e Bart
Riposate per sempre qui nei nostri cuori
L’ultimo e finale istante è vostro
Quell’agonia è il vostro trionfo
Questo è per voi, Nicola e Bart
Riposate per sempre qui nei nostri cuori
L’ultimo e finale istante è vostro
Quell’agonia è il vostro trionfo
Questo è per voi, Nicola e Bart
Riposate per sempre qui nei nostri cuori
L’ultimo e finale istante è vostro
Quell’agonia è il vostro trionfo
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Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, pugliese il primo e piemontese il secondo emigrarono negli Stati Uniti nel 1908. Vissero e lavorarono nel Massachusetts facendo i mestieri più disparati come consuetudine in quegli anni per gli immigrati, (alla fine Sacco calzolaio e Vanzetti pescivendolo), professando le loro idee socialiste di colore anarchico e pacifista. Nell’aprile del 1920 in un clima permeato da pregiudizi e da ostilità verso gli stranieri, furono accusati di essere gli autori di una rapina ad una fabbrica di calzature in cui rimasero vittime un cassiere e una guardia armata.
Il processo istituito contro di loro non giunse mai alla certezza di provare accusatorie sicure, ma fu fortemente condizionato dall’ansia di placare un opinione pubblica furiosa e avvelenata dalla violenza, a cui bisognava dare dei colpevoli e dal pretesto fornito dall’evento per la scalata al successo personale del giudice THAYER e del pubblico ministero KATZMANN.
Di certo Sacco e Vanzetti pagarono per le loro idee anarchiche, idealiste e pacifiste (al momento dell’intervento americano del conflitto del 15-18 si rifugiarono in Messico per non essere arruolati) e per il fatto di far parte di una minoranza etnica disprezzata ed osteggiata come quella italiana. Non da meno pesarono le azioni violente e terroristiche dell’altra ala del pensiero anarchica dei primi anni del secolo (ad es. Gaetano Cresci e Giovanni Passanante) e non ultime alcune contraddizioni della linea difensiva. Dopo circa un anno di processo il 14 luglio 1921 furono condannati alla sedia elettrica.
Sacco e Vanzetti ribadirono fino all’ultimo la loro innocenza, ma nonostante nel 1925 un pregiudicato, tal Celestino Madeiros si accusasse di aver partecipato alla rapina assieme ad altri complici; scagionando completamente i due italiani e nonostante appelli e manifestazioni di solidarietà e di richiesta di assoluzione da parte dell’opinione pubblica mondiale, la notte del 23 agosto 1927 Sacco e Vanzetti furono giustiziati sulla sedia elettrica.
Nel 1977 dopo che il caso era stato più volte riaperto, il governatore del Massachusetts, Michael s. Dukakis, riabilitò le figure di Sacco e Vanzetti, scrivendo nel documento che proclama per il 23 agosto di ogni anno il S.&V. Memorial Day che “il processo e l’esecuzione di Sacco e Vanzetti devono ricordarci sempre che tutti i cittadini dovrebbero stare in guardia contro i propri pregiudizi, l’intolleranza verso le idee non ortodosse, con l’impegno di difendere sempre i diritti delle persone che consideriamo straniere per il rispetto dell’uomo e della verità”.
A noi di tutta la vicenda (che per la durata della prigionia e i contorni della fine assume quasi caratteri martirologici) preme far rilevare l’estrema coerenza e convinzione nei valori professati da Sacco e Vanzetti, mai rinnegati fino alla fine e non ultimo il forte legame di amicizia che li tenne uniti e spiritualmente vicini per tutta la loro esistenza, anche nel momento in cui salirono sulla sedia elettrica, con un coraggio, uno stoicismo ed una umanità su cui tutti dovremmo riflettere e confrontarci. Perché in ogni caso la vera memoria ha un futuro dentro ognuno di noi.
Il più famoso componimento sulla vicenda di Sacco e Vanzetti ad opera di Joan Baez e del compositore Ennio Morricone.
Si tratta originariamente della colonna sonora del film di Giuliano Montaldo (1972) “Sacco e Vanzetti”, interpretato da Gian Maria Volonté (Bartolomeo Vanzetti) e Riccardo Cucciolla (Nicola Sacco). Musiche di Ennio Morricone e testi di Joan Baez. La Seconda parte della ballata è ispirata dalla lettera dal carcere di Vanzetti al padre, mentre la Terza parte è ispirata dalla stessa lettera dal carcere di Sacco al figlio Dante.
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The Ballad Of Sacco And Vanzetti – Part One
Lyrics by Joan Baez, Music by Ennio Morricone
Interpreted by Joan Baez
Give to me your tired and your poor
Your huddled masses yearning to breathe free
The wretched refuse of your teeming shore
Send these, the homeless, tempest-tossed to me.”
Blessed are the persecuted
And blessed are the pure in heart
Blessed are the merciful
And blessed are the ones who mourn
The step is hard that tears away the roots
And says goodbye to friends and family
The fathers and the mothers weep
The children cannot comprehend
But when there is a promised land
The brave will go and others follow
The beauty of the human spirit
Is the will to try our dreams
And so the masses teemed across the ocean
To a land of peace and hope
But no one heard a voice or saw a light
As they were tumbled onto shore
And none was welcomed by the echo of the phrase
“I lift my lamp beside the golden door.”
Blessed are the persecuted
And blessed are the pure in heart
Blessed are the merciful
And blessed are the ones who mourn
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La Ballata di Sacco Vanzetti – 1^ Parte
Testo di Joan Baez, Musica di Ennio Morricone
Interpretata da Joan Baez
“Portatemi i vostri stanchi e i vostri poveri
le vostre masse riunite per respirare libere
i rifiuti scartati delle vostre rive affollate
mandateli, i senzacasa, quelli colpiti da tempesta, da me”
Benedetti siano i perseguitati
e benedetti siano i puri di cuore
benedetti siano i misericordiosi
e benedetti siano i portatori di lutto
Il passo è difficile che strappa le radici
e dice addio ad amici e famiglia
i padri e le madri piangono
i bambini non possono capire
ma quando c’è una terra promessa
i coraggiosi andranno e gli altri seguiranno
la bellezza dello spirito umano
è la volontà di provare i nostri sogni
e così le masse si affollano attraverso l’oceano
in una terra di pace e speranza
ma nessuno udì una voce o vide una luce
e furono sbattuti contro la riva
e nessuno fu accolto dall’eco della frase
“alzo la mia lampada dietro la porta d’oro”
Benedetti siano i perseguitati
e benedetti siano i puri di cuore
benedetti siano i misericordiosi
e benedetti siano i portatori di lutto
***
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The Ballad Of Sacco And Vanzetti – Part Two
Lyrics by Joan Baez, Music by Ennio Morricone
Interpreted by Joan Baez
Father, yes, I am a prisoner
Fear not to relay my crime
The crime is loving the forsaken
Only silence is shame
And now I’ll tell you what’s against us
An art that’s lived for centuries
Go through the years and you will find
What’s blackened all of history
Against us is the law
With its immensity of strength and power
Against us is the law!
Police know how to make a man
A guilty or an innocent
Against us is the power of police!
The shameless lies that men have told
Will ever more be paid in gold
Against us is the power of the gold!
Against us is racial hatred
And the simple fact that we are poor
My father dear, I am a prisoner
Don’t be ashamed to tell my crime
The crime of love and brotherhood
And only silence is shame
With me I have my love, my innocence,
The workers, and the poor
For all of this I’m safe and strong
And hope is mine
Rebellion, revolution don’t need dollars
They need this instead
Imagination, suffering, light and love
And care for every human being
You never steal, you never kill
You are a part of hope and life
The revolution goes from man to man
And heart to heart
And I sense when I look at the stars
That we are children of life
Death is small.
***
La Ballata di Sacco Vanzetti – 2^ Parte
Testo di Joan Baez, Musica di Ennio Morricone
Interpretata da Joan Baez
Sì Padre, son carcerato
Non aver paura di parlare del mio reato
Crimine di amare i dimenticati
Solo il silenzio è vergogna.
Ed ora ti dirò cosa abbiamo contro di noi
Un’arte che è stata viva per secoli
Percorri gli anni e troverai
cosa ha imbrattato tutta la storia.
Contro di noi è la legge
con la sua immensa forza e potere
Contro di noi è la legge!
La Polizia sa come fare di un uomo
un colpevole od un innocente
Contro di noi è il potere della Polizia!
Le menzogne senza vergogna dette da alcuni uomini
saranno sempre ripagate in denari.
Contro di noi è il potere del denaro
Contro di noi è l’odio razziale
ed il semplice fatto che siamo poveri.
Mio caro padre, son carcerato
Non vergognarti di divulgare il mio reato
Crimine d’amore e fratellanza
E solo il silenzio è vergogna.
Con me ho il mio amore, la mia innocenza,
i lavoratori ed i poveri
Per tutto questo sono integro, forte
e pieno di speranze.
Ribellione, rivoluzione non han bisogno di dollari,
Ma di immaginazione, sofferenza, luce ed amore
e rispetto
Per ogni essere umano.
Non rubare mai, non uccidere mai,
sei parte della forza e della vita
La Rivoluzione si tramanda da uomo ad uomo
e da cuore a cuore
E percepisco quando guardo le stelle
che siamo figli della vita
La morte è poca cosa
***
***
The Ballad Of Sacco And Vanzetti-Part Three
Lyrics by Joan Baez, Music by Ennio Morricone
Interpreted by Joan Baez
My son, instead of crying be strong
Be brave and comfort your mother
Don’t cry for the tears are wasted
Let not also the years be wasted
Forgive me, son, for this unjust Death
Which takes your father from your side
Forgive me all who are my friends
I am with you, so do not cry
If mother wants to be distracted
From the sadness and the soulness
You take her for a walk
Along the quiet country
And rest beneath the shade of trees
Beside the music and the water
Is the peacefulness of nature
She will enjoy it very much
And surely you’ll enjoy it too
But son, you must remember
Do not use it all yourself
But down yourself one little step
To help the weak ones by your side
Forgive me, son, for this unjust death
Which takes your father from your side
Forgive me all who are my friends
I am with you, so do not cry
The weaker ones that cry for help
The persecuted and the victim
They are your friends
And comrades in the fight
And yes, they sometimes fall
Just like your father
Yes, your father and Bartolo
They have fallen
And yesterday they fought and fell
But in the quest for joy and freedom
And in the struggle of this life you’ll find
That there is love and sometimes more
Yes, in the struggle you will find
That you can love and be loved also
Forgive me all who are my friends
I am with you
I beg of you, do not cry
***
La Ballata di Sacco Vanzetti – 3^ Parte
Testo di Joan Baez, Musica di Ennio Morricone
Interpretata da Joan Baez
Figlio mio, invece di piangere sii forte
sii coraggioso e conforta tua madre
non piangere perché le lacrime sono sprecate
non lasciare che anche gli anni siano sprecati
Perdonami figlio, per questa morte ingiusta
che ti porta via tuo padre
perdona tutti coloro che sono miei amici
io sono con te, quindi non piangere
Se tua madre cerca di essere distratta
dalla tristezza e dalla depressione
portala a camminare
lungo la campagna tranquilla
e riposa sotto l’ombra degli alberi
dove qua e là raccogli fiori
oltre la musica e l’acqua
è la pace della natura
che lei apprezzerà molto
e sicuramente anche tu l’apprezzerai
ma figlio, devi ricordarti
non agire tutto da solo
ma abbassati solo un passo
per aiutare i deboli al tuo fianco
Perdonami figlio, per questa morte ingiusta
che ti porta via tuo padre
perdona tutti coloro che sono miei amici
io sono con te, quindi non piangere
I più deboli che piangono per un aiuto
il perseguitato e la vittima
sono tuoi amici
e compagni nella lotta
e sì, qualche volta cadono
proprio come tuo padre
sì, tuo padre e Bartolo
sono caduti
e ieri combatterono e caddero
ma nella ricerca di gioia e libertà
e nella lotta di questa vita troverai
che c’è amore e a volte di più
sì, nella lotta troverai
che puoi amare e anche essere amato
Perdona tutti coloro che sono miei amici
io sono con te,
ti prego non piangere
***
Monologhi dal film di Giuliano Montaldo “Sacco e Vanzetti” (1972)
interpretato da Gian Maria Volonté (Bartolomeo Vanzetti) e Riccardo Cucciolla (Nicola Sacco)
***
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Un’ingiustizia commessa 90 anni fa, che si riflette ancora oggi.
Perché a subirla furono immigrati, e italiani per la precisione, poveri e politicamente scomodi in quanto anarchici.
Due “wops” (without papers, senza documenti, epiteto dispregiativo usato ancor oggi per gli italiani) che non parlavano inglese o quasi.
Due “bastardi anarchici”, come a più riprese li chiamò in aula il giudice Webster Thayer.
Due migranti, come quelli di oggi: poveri e senza voce in capitolo.
Sacco e Vanzetti furono vittime della “politica del terrore” contro i “rossi” che l’America del tempo praticava, con speciale ferocia quando si trattava di immigrati. Una linea di condotta che caratterizzava il clima politico statunitense di quegli anni, instaurata indiscriminatamente contro anarchici, operai, sindacalisti e masse popolari che auspicavano un riscatto sociale.
Gran parte dell’opinione pubblica riteneva che l’appartenenza agli Stati Uniti fosse una questione di sangue e non accettava i nuovi arrivati, ritenendoli individui etnicamente inferiori e non assimilabili perché le loro radici non affondavano nell’Europa Settentrionale.
In particolare, gli italiani erano accusati di essere incivili, sporchi, violenti, dediti al crimine e, in un’ipotetica gerarchia razziale, più simili e vicini ai neri che ai bianchi, a causa del colore olivastro della pelle di molti meridionali e dei loro rapporti secolari con i nordafricani.
Basti pensare che, tra gli ultimi anni del 1800 e i primi del 1900, oltre 30 immigrati italiani, in prevalenza siciliani, vennero linciati, cioè furono colpiti da quella forma di giustizia sommaria popolare che negli Stati del Sud, razzisti, si accaniva sugli afroamericani.
In un momento in cui era fortissimo sia il pregiudizio nei confronti degli italiani, sia quello nei confronti degli anarchici, Sacco e Vanzetti dovettero affrontare un tribunale e un giudice – Webster Thayer che, appunto, li chiamava “bastardi” – fortemente motivati a farli giustiziare. Inoltre il governatore dell’epoca, Alvan Fuller, che avrebbe potuto evitare l’esecuzione, non lo fece per motivi, a quanto si è capito negli anni, puramente politici: cercava la nomination repubblicana alla presidenza degli Stati Uniti.
La vera “colpa” di Sacco e Vanzetti era di essere italiani e anarchici e che di questa loro “fede” non facevano mistero.
Furono molti gli intellettuali di primissimo piano che presero le parti dei due immigrati italiani: da Albert Einstein a George Bernard Shaw, da Bertrand Russell a John Dos Passos, passando per Anatole France.
Persino Benito Mussolini, nonostante l’ideologia politica lo allontanasse da Sacco e Vanzetti, si adoperò perché i due italiani fossero risparmiati.
Ma ogni iniziativa fu inutile: i due trovarono la morte su una sedia elettrica, scatenando indignazione e rivolte.
A novant’anni di distanza, mentre l’appartenenza alla nazione di afroamericani, ispanici e musulmani è messa in discussione nell’America di Trump, la vicenda di Sacco e Vanzetti resta a monito delle aberrazioni dell’intolleranza xenofoba che riaffiora continuamente in un Paese che avrebbe l’ambizione di essere la terra degli immigrati per antonomasia.
Sacco e Vanzetti furono vittime del pregiudizio, della faziosità, dell’intolleranza, della discriminazione, del razzismo e della persecuzione diventati regola di vita.
E noi? Come l’intera Europa, l’Italia si è battuta a lungo affinché fosse fatta giustizia e venisse riconosciuta l’innocenza dei nostri connazionali e riabilitato il loro nome. Noi tutti li ricordiamo tributando loro gli onori che meritano.
Ma cosa si sta facendo col fenomeno della immigrazione nel nostro “Bel Paese”?
Non sta forse spirando un vento che porta la stessa intolleranza xenofoba, la stessa discriminazione, lo stesso razzismo di 90 anni or sono verso gli italiani, contro un’umanità miserabile che fugge dalle terre della disperazione, esseri umani ai quali abbiamo depredato tutto, lasciando loro solo gli occhi per piangere?
Bartolomeo Vanzetti, che conosceva l’inglese meglio di Sacco, pronunciò al giudice queste parole: “Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra, ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole”.
E quando arrivano dal mare uomini, donne, bambini, rischiando la vita, non dimentichiamoci che non sono meno di un cane, un serpente, o la più bassa creatura della Terra, ma esseri umani la cui unica colpa è soltanto la disperazione.
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Scena dal film di Giuliano Montaldo “Sacco e Vanzetti” (1972)
interpretato da Gian Maria Volonté (Bartolomeo Vanzetti) e Riccardo Cucciolla (Nicola Sacco)
“Es mejor así, nunca debería haber sido capturado con vida.” Estas fueron las palabras de Ernesto Che Guevara
cuando se dio cuenta de que iba a ser fusilado.
Él siempre será mi ideal y mi mito!
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In occasione del 50° anniversario dell’assassinio del Comandante Ernesto Che Guevara e dei suoi compagni guerriglieri caduti in Bolivia, il ricordo della figura del Guerrigliero Eroico che, con la sua vita, le sue gesta, il suo pensiero, rimane sempre presente come esempio imprescindibile per chi lotta contro l’imperialismo e l’ingiustizia.
Domenica, 8 ottobre 1967
Il capitano dei Ranger Gary Prado stenta a credere a ciò che gli vanno dicendo. In fondo ad un vallone sperduto nella Bolivia meridionale, su una pietraia invasa dai rovi, ha davanti a sé il guerrigliero più ricercato e più temuto del continente, l’uomo che ha fatto mettere in stato d’assedio l’intero paese. Due soldati lo tengono sotto tiro.
E’ visibilmente spossato. La tuta mimetica cachi sporca, piena di fango, strappata e un giubbotto blu in pessimo stato, che copre appena una camicia a brandelli, cui resta un solo bottone.
L’aspetto di un bandito. Dal collo gli pende un altimetro. Esala un odore forte, un miscuglio acre di tabacco e sudore. Barba, baffi, capelli intrisi di polvere e arruffati gli divorano parte del volto. Ma i suoi occhi continuano a splendere sotto il basco verde scuro. “Il suo sguardo faceva impressione”, osserva Gary Prado che, al momento, finge di non dare eccessiva importanza all’incredibile rivelazione.
Sono le tre del pomeriggio di domenica 8 ottobre 1967. Ma era un’alba gelida quando un contadino era corso al villaggio di La Higuera per dare l’allarme all’esercito. Ora il sole è caldo e, a 1500 metri di altitudine, l’atmosfera limpida. Colpi di arma da fuoco risuonano in un canyon lontano. Lo scontro della quebrada del Churo dura già da quasi quattro ore. Accanito.
Tre pallottole di mitragliatrice hanno raggiunto Guevara senza metterlo in reale difficoltà. Una ha soltanto perforato il basco, l’altra ha reso inservibile la canna del fucile M-1 che gli serve da appoggio. La terza l’ha colpito al polpaccio destro, in basso. Non ha più scarpe. I piedi sono avvolti in pezze di pelle cuciti a mano in modo approssimativo.
Un filo di sangue gocciola lungo la caviglia.
“Sono Che Guevara”, ripete con voce ferma.
Il capitano scorre i molti ritratti di guerriglieri in dotazione ai Ranger. Con i suoi uomini, ha appena terminato un periodo di addestramento intensivo durato cinque mesi. Alcuni “Berretti Verdi” statunitensi, esperti in tecniche antiguerriglia, veterani del Vietnam, sono venuti appositamente dal campo di Fort Bragg e da Panama per perfezionare l’addestramento delle truppe boliviane. E lui stesso ha partecipato ai corsi di intelligence che la CIA ha riservato agli ufficiali.
I ritratti, molto rassomiglianti, sono stati eseguiti da un guerrigliero occasionale: il pittore argentino Ciro Bustos che Guevara aveva chiamato in Bolivia perché aderisse alla guerriglia. L’argentino, arrestato sei mesi prima a centocinquanta chilometri da lì, ha immediatamente raccontato tutto e anche qualcosa in più. Il suo arresto é avvenuto assieme a quello di Regis Debray, il cui processo, a Camiri, ha suscitato grande scalpore in tutto il mondo. Bustos ha tracciato con precisione i lineamenti di ciascuno dei membri della guerriglia.
Prado verifica con attenzione. Le caratteristiche protuberanze delle arcate sopraccigliari lasciano pochi dubbi. Per ulteriore conferma chiede al prigioniero di mostrare il dorso della mano sinistra, dove risalta la cicatrice. E’ il Che.
Ha catturato una leggenda…
Lunedì, 9 ottobre 1967
Appoggiato alla meglio su uno dei piccoli banchi della scuola, il Che è oramai allo stremo. E’ quasi un giorno che subisce angherie, torture, interrogatori. Sempre però i suoi aguzzini entrano baldanzosi e escono con la testa bassa. Di piegarlo o di farlo parlare non c’è verso, e spesso, è lui che mette in crisi le loro coscienze riaffermando sempre la sua dignità e il suo coraggio. A chi lo accusa o lo insulta, lui risponde con calma e fierezza, fissandoli dritto negli occhi, facendogli sentire vergogna per quello che stanno facendo, e rimorso per quanto si sono asserviti a un potere stupido e violento che li usa come dei boia contro i loro fratelli. Ha perso la calma solo una volta, di fronte a un traditore cubano che si è venduto alla CIA. Con la forza restante che aveva, gli ha dato un pugno e sputato in faccia. Poi lo hanno legato e picchiato. Dopo un ufficiale, più umano degli altri, lo ha fatto sciogliere, bere dell’acqua e gli ha offerto un sigaro. Gli ha raccontato che ha un fratello comunista, che anche lui è qui solo perché deve vivere. Da quel momento in poi lo hanno lasciato in pace, dolorante e debole per la ferita, con il petto a pezzi per l’asma.
Pensa a che fine hanno fatto i suoi compagni. Li crede quasi tutti in salvo. Non può sapere che i quatto feriti e Pablito, che ha solo ventidue anni ed è il più giovane dei guerriglieri, tra poco cadranno in un altro agguato e saranno finiti a colpi di mitra; né che un piccolo gruppetto capeggiato da Pombo è riuscito a rompere l’accerchiamento e ora marcia, soffrendo e combattendo, verso il Cile, dove saranno salvati dal futuro presidente Allende.
Gli riappaiono i volti di tutti quelli che hanno combattuto con lui e che sono caduti lungo il cammino della rivoluzione. Sono tanti, quasi tutti suoi amici.
Ricorda i mille posti del mondo che ha visto, con una sterminata umanità che ci vive, soffrendo soprusi, ingiustizie, violenza. Per questa gente si è battuto e ora sta per morire. Ha voluto dimostrare che i poveri e gli emarginati, i deboli e i diversi, hanno la fierezza di ribellarsi e la forza di vincere. Se lui non c’è riuscito ci saranno altri che continueranno. E’ pronto a morire senza alcun rimpianto. E’ una cosa normale, lo sapeva che poteva accadere questo.
Sua moglie e i suoi figli capiranno tutto questo? Le loro immagini gli toccano il cuore. I suoi bambini! Qualcuno è così piccolo che non si ricorderà di lui. Vorrebbe avere la possibilità di poterli ancora una volta stringere a sé.
Ma il dolore lo scuote, la ferita continua a perdere il sangue, la febbre a salire. Ora è quasi in delirio. Come dopo il suo sbarco a Cuba, quando credeva di essere moribondo, adesso il suo pensiero galoppa.
Ad un tratto la porta si apre e capisce che è venuta l’ora.
L’uccisione del Che, decretata in alto loco, fu affidata ad un giovane soldato, Mario Terran.
Al suo esitare il Che gli gridò “Dispara, cojudo, dispara! Cierra los ojos y dispara!” . Erano le ore 13. Ernesto Che Guevara aveva trentanove anni.
Ernesto Guevara de la Serna, il “Che”, è stato il frutto di circostanze soggettive e storiche che, intersecandosi con una personalità sensibile e complessa, sviluppata in un ambiente intellettualmente fecondo, ne hanno fatto un moderno eroe.
Erano in tre e le hanno strappato il futuro e la speranza
di Claudia Pepe 02 Ottobre 2017 Blog Movimento Essere Sinistra – MovES
Erano in tre i maledetti che hanno violentato una ragazza di 25 anni tra sabato e domenica a Catania.
Erano in tre quando uno alla volta l’hanno stuprata, le hanno vomitato addosso il loro sperma, la loro vigliaccheria, la loro incapacità di vivere.
Erano in tre, ed erano tutti italiani questi vermi che dopo averle saccheggiato ogni angolo del suo corpo, dopo averle tappata la bocca, gli occhi e spazzato via per sempre la sua vita, l’hanno gettata in mezzo alla strada. Come un sacco d’immondizia, come il letame, come il sudiciume.
Erano italiani questi tre delinquenti che hanno rubato la vita ad una ragazza.
Erano tre questi uomini di merda che probabilmente sono sposati e fidanzati, che vanno a messa la domenica e sputano sugli immigrati. 36, 34, e 23 anni questa è l’età di questi assassini che pensavano di passare una serata nella bocca di questa ragazza.
Uno dei tre la conosceva, e dopo la discoteca le ha offerto di riaccompagnarla a casa. Lei ha accettato, mai avrebbe pensato che quella notte sarebbe stata l’ultima da ragazza spensierata, da donna libera.
È entrata in macchina ancora con le note della musica che le risuonavano nelle orecchie, era felice, stava tornando a casa.
Ma nella macchina non ha trovato l’amico che le faceva una cortesia, ma tre schifosi che si sono messi d’accordo per vomitarle addosso la loro rabbia e la loro sessualità malata.
Sono proprio quegli “uomini” che baciano la mano alla mamma, che la moglie non deve essere guardata da nessuno, e di fronte ad una ragazza che si diverte e vive la propria vita la fotografano come “puttana”, come una cosa di cui si può abusare, e prendere a calci dopo averla sommersa di escrementi.
Perché è proprio questo che sono, la feccia del nostro mondo. “Uomini che baciano il santo protettore, si inchinano davanti alla casa del boss, e poi vanno a rovesciare la loro urina su un viso che ne porterà sempre i segni.” Io come insegnante non posso fare a meno di informare i miei studenti, di allarmare le famiglie che stiamo attraversando uno dei periodi più difficili per noi donne.
Per i ragazzi, per i sogni e per delle lacrime che non finiranno mai. Io voglio ribellarmi a questo Stato che non difende le donne, acconsente con il silenzio allo sterminio di visi innocenti, che lascia uccidere nei loro respiri, visi riversi per terra.
Abbracciate ad un selciato che diverrà la loro storia.
Questa ragazza buttata su una strada, dopo essere salita sul Golgota e abbracciata la croce, è stata conficcata con chiodi che nessuno mai potrà levarle, incoronata da una corona di spine che continuerà a sanguinare per tutta la sua vita.
Dopo averle fatto bere aceto, e infilzata da lance nel costato, inchiodata da mani sporche di sacrilegio, irrisa e devastata, è stata notata da un vicino di casa, che ha lanciato l’allarme.
Cento donne in Italia, ogni anno, vengono uccise da uomini, e sono quasi sempre quelli che sostengono di amarle. È una vera e propria strage.
Ai femminicidi si aggiungono violenze quotidiane che sfuggono ai dati ma che, se non fermate in tempo, rischiano di fare altre vittime: sono infatti migliaia le donne molestate, perseguitate, aggredite, picchiate, sfregiate. Quasi 7 milioni, secondo i dati Istat, quelle che nel corso della propria vita hanno subito una forma di abuso.
Domani potrei essere io, potremo tutte essere uccise, perseguitate, violentate e scalciate su una strada come i rifiuti di una società.
Erano in tre le bestie che hanno rovinato la vita ad una ragazza, sono stati fermati certo, ma quando sconteranno la loro pena? Andranno a chiedere scusa al patrono della città, diranno che sono stati provocati, che in fondo le donne non vogliono altro che farsi tappare i buchi. Perché per loro è questa la nostra natura.
Ed io insegnante, lotterò fino al mio ultimo respiro, perché nessuno dei miei ragazzi debba scontare la morte mentre sta vivendo. Insegnerò questa poesia di Alda Merini che insegna l’amore, la vita, la tenerezza, il calore e la dolcezza.
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“E poi fate l’amore.
Niente sesso, solo amore.
E con questo intendo i baci lenti sulla bocca,
sul collo, sulla pancia, sulla schiena,
i morsi sulle labbra, le mani intrecciate,
e occhi dentro occhi.
Intendo abbracci talmente stretti
da diventare una cosa sola,
corpi incastrati e anime in collisione,
carezze sui graffi, vestiti tolti insieme alle paure,
baci sulle debolezze,
sui segni di una vita
che fino a quel momento era stata un po’ sbagliata.
Intendo dita sui corpi, creare costellazioni,
inalare profumi, cuori che battono insieme,
respiri che viaggiano allo stesso ritmo,
e poi sorrisi,
sinceri dopo un po’ che non lo erano più.
Ecco, fate l’amore e non vergognatevene,
perché l’amore è arte, e voi i capolavori.”
A voi miei grandi ragazzi, capolavori della mia vita.
Non aggiungo molto di mio, questo articolo parla anche per me, spero soltanto che parli al cuore di tante altre donne. E di tanti uomini anche, ché non sono tutti “pezzi di merda” come questi criminali! Che tutti possiamo, insieme, ribellarci e lottare contro questo stato di cose.
Non dobbiamo accettare in silenzio questa quotidiana strage di donne. Noi donne non dobbiamo dividerci perché, come afferma Claudia, “Domani potrei essere io, potremo tutte essere uccise, perseguitate, violentate e scalciate su una strada come i rifiuti di una società.”
Un abbraccio fortissimo a questa ragazza di Catania, spero che un giorno, se mai sarà possibile, riesca a trovare un po’ di serenità.
Un abbraccio e un ringraziamento a Claudia Pepe, che ha scritto questo pezzo con intensità, partecipazione, solidarietà, condivisione e grande amore per le donne e per i suoi allievi.
“Ferite a Morte” è nato come un progetto teatrale sul femminicidio scritto e diretto da Serena Dandini. Un’ antologia di monologhi sulla falsariga della famosa Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master costruita con la collaborazione di Maura Misiti, ricercatrice del CNR. I testi attingono alla cronaca e alle indagini giornalistiche per dare voce alle donne che hanno perso la vita per mano di un marito, un compagno, un amante o un “ex”.
Presentato prima in forma di lettura-evento, ha visto numerose donne illustri e note al grande pubblico facenti parte del mondo della cultura, dello spettacolo, della politica e della società civile, dare voce a un immaginario racconto postumo delle vittime, creando un’occasione di riflessione e di coinvolgimento dell’opinione pubblica, dei media e delle istituzioni.
“Tutti i monologhi di “Ferite a morte” – spiega Serena Dandini – ci parlano dei delitti annunciati, degli omicidi di donne da parte degli uomini che avrebbero dovuto amarle e proteggerle. Non a caso i colpevoli sono spesso mariti, fidanzati o ex, una strage familiare che, con un’impressionante cadenza, continua tristemente a riempire le pagine della nostra cronaca quotidiana. Dietro le persiane chiuse delle case italiane si nasconde una sofferenza silenziosa e l’omicidio è solo la punta di un iceberg di un percorso di soprusi e dolore che risponde al nome di violenza domestica. Per questo pensiamo che non bisogna smettere di parlarne e cercare, anche attraverso il teatro, di sensibilizzare il più possibile l’opinione pubblica”.
Dal 2013 “Ferite a morte” ha preso due strade: un tour internazionale “permanente”, che vede nella veste di lettrici degli spoon personalità femminili tra le più in vista dei Paesi che ospitano l’evento in tutto il mondo, in collaborazione con le istituzioni governative locali; un tour nazionale con una compagnia stabile composta da Lella Costa, Orsetta de Rossi, Giorgia Cardaci (fino al 2015), Rita Pelusio.
La scena teatrale è sobria: un grande schermo manda filmati ed immagini evocative.
Donne in bianco e nero, belle come attrici di Hollywood o di Cinecittà, sul cui volto si mescolano rose, uccelli, farfalle, aerei. Figurine femminili di ginnaste, contorsioniste e ballerine, solitarie, in equilibrio, colte nel culmine della tensione dell’esercizio o nel rilassamento. E’ il mondo di Rossella Fumasoni, artista romana che ha prestato la sua opera e i suoi personaggi dipinti per accompagnare la ‘spoon river’ di Serena Dandini e dare un volto, simbolico, alle voci delle donne vittime di femminicidio.
Rossella Fumasoni è pittrice e scrittrice, espone dal 1994 sia in Italia che all’estero.
Gli oggetti che hanno caratterizzato la tragica avventura delle protagoniste delle storie sono lì ad accompagnarle nei ricordi così come la musica che ne sottolinea gli stati emotivi.
Le attrici si alternano sul palco usando un linguaggio poliforme: un contrappunto emotivo, ora drammatico ora leggero, che usa i toni ironici e grotteschi propri della scrittura di Serena Dandini.
Lella Costa, artista tra le più lucide, appassionate, socialmente consapevoli e impegnate delle nostre scene, tre attrici attive in campo televisivo, cinematografico e teatrale.
Orsetta de Rossi, dopo il debutto nella Tv delle ragazze, ha preso parte a “Tutti pazzi per amore” e “I Cesaroni” e, al cinema, a “La seconda volta” di Mimmo Calopresti, “Matrimoni” di Cristina Comencini e “L’amore è eterno finché dura” di Carlo Verdone.
Rita Pelusio ha studiato mimo e clownerie e ha preso parte alle produzioni televisive “Markette” e “Colorado Café”, mentre in teatro ha lavorato con Natalino Balasso. Nel 2006 ha vinto il Premio Massimo Troisi come miglior attrice comica.
Ogni replica offre la possibilità di ospitare sul palco a leggere uno spoon donne in rappresentanza della società civile nel territorio di rappresentazione.
Tutti gli eventi teatrali di “Ferite a morte” sono stati occasione di sostegno alla rete D.i.Re, che accorpa tutti i centri antiviolenza in Italia, e alla Convenzione NO MORE! che chiede al Governo e alle istituzioni italiane di discutere urgentemente le proposte in materia di prevenzione, contrasto e protezione delle donne dalla violenza maschile.
“Ferite a morte” è un libro edito da Rizzoli. Il volume raccoglie tutti i testi prodotti per il palcoscenico ed è arricchito da una sezione dedicata alla descrizione del fenomeno del femminicidio, particolarmente curata da Maura Misiti.
“Ferite a morte” è un blog che raccoglie e diffonde notizie sul tema della violenza alle donne, informazioni sui centri di accoglienza, segnalazioni di progetti messi in atto dai sostenitori per avviare buone pratiche in materia, storie, appuntamenti, iniziative nate sulla scia dei testi di Serena Dandini. Al blog sono associati una pagina Facebook e un profilo Twitter, utili da un lato a rendere virale la diffusione dei contenuti, dall’altro a concentrare in quel luogo virtuale una comunità di uomini e donne uniti dalla necessità e dall’urgenza di questa battaglia di civiltà.
Non riesco quasi più a parlare di violenza sessuale, stupro, femminicidio. Non riesco più a guardare immagini di donne picchiate, stuprate, uccise. Sto male, sto fisicamente male, perché mi viene spontaneo immedesimarmi ed è come se sentissi su di me la violenza. Come se le cose che leggo o vedo fossero successe a me, sento il dolore fisico di un pugno, di un coltello che si infila nella carne, di una corda stretta al collo che mi soffoca. Non ce la faccio più!
Eppure so che non si può tacere, al contrario, bisogna parlarne sempre più se si vuole che questo fenomeno, sempre più in aumento, venga capito fino in fondo, venga respinto, stroncato. Se si vuole cambiare la mentalità da cui nasce e si sviluppa. La cultura dello stupro è basata sul potere dell’uomo sulla donna. Fino a quando non riusciremo a smantellare questo concetto, non penso che potremo mettere fine a questa atrocità.
La maggioranza degli stupri avviene tra le pareti domestiche, non come si pensa troppo spesso, ad opera di sconosciuti, o come si vuole far credere per meri e sporchi interessi politici, al fenomeno dell’immigrazione. Non lasciamoci ingannare da chi vuole ulteriormente strumentalizzare questa efferatezza per il proprio tornaconto. Uno stupro è uno stupro!, non importa se chi lo commette è nero, bianco, giallo o rosso! Non v’è differenza alcuna, è il frutto di una “forma mentis” che caratterizza tutte le popolazioni del mondo.
E, comunque, è nella famiglia stessa che si perpetua da secoli questa mentalità becera sulle donne.
Uno stupro ha veramente poco a che fare con la passione e la sessualità, è bensì un atto pseudo-sessuale dovuto ad ostilità, collera e controllo che dimostra solo un fondamentale bisogno di dominanza e forza. La vittima diventa un oggetto senza significato: la donna diventa il contenitore di tutte quelle emozioni negative di cui l’assalitore vuole sbarazzarsi, come se si trattasse di un’“infezione psichica”. A muovere lo stupratore sono la pretesa di essere come Dio, il Sé grandioso, la mancanza di empatia.
Quanto ancora le donne dovranno essere un “sacrifico” umano sull’altare dell’ uomo che deve dimostrare con la forza la propria superiorità di genere? Siamo solo una “categoria”, così come lo sono i bambini, violentati, stuprati, negati, non persone, non esseri umani, solo fragili oggetti da usare a proprio piacimento.
Certo non dovremo stancarci o smettere di batterci per smantellare questo convincimento, ma io la speranza un po’ l’ho persa, non sono bastati secoli, non sono bastate lotte di milioni di donne in tutto il mondo, che seppure siano servite alla conquista di diritti civili spesso negati, non sono riuscite a sgretolare neanche un solo sassolino dal macigno che rappresenta una mentalità gretta e pericolosa … vedo tutto molto, molto lontano. Anche riuscendo, come madri, a crescere i figli maschi senza che in loro si sviluppi un senso di predominio nei confronti delle donne, e non so come, perché non servono discorsi quando poi si dimostra il contrario con i comportamenti che si tengono, anche riuscendoci, quante generazioni dovranno passare? Tante, tantissime, troppe!
Nonostante la mia speranza si sia un poco affievolita, ho scelto, comunque, di parlarne, altrimenti mi sembrerebbe di arrendermi prima di aver combattuto, di non fare la mia parte. Ma ho scelto di parlarne in questo modo, senza immagini scabrose, che mi colpiscono e mi fanno star male, non per negare la realtà delle cose, ma perché a volte colpisce di più di una immagine che, per quanto drammatica, si cancella velocemente e scompare in un attimo. Un video, uno spezzone di “teatro” che racconta, che lo fa utilizzando toni ironici e grotteschi, che ci fanno anche ridere, ma che, proprio per questo, restano spesso più impressi nella mente e ci danno modo di riflettere.
E nella riflessione, amiche mie, sorelle, donne, non dite mai “se l’è cercata”, pensate a quanto sono orribili queste parole, nessuna donna, per qualsivoglia comportamento possa tenere, va a cercarsi la violenza. Nessun uomo ha il diritto di praticarla, per nessun motivo al mondo!
Quando pronunciate questa terribile frase, pensate che quella donna avrebbe potuto essere vostra figlia, vostra sorella, vostra madre, voi stesse.
Ogni donna violata sono io, cominciamo tutte a sentirci coinvolte, a condividere, ad essere unite. Non facciamo il gioco di chi vuole renderci deboli, sempre più fragili, per poterci annientare e sopraffare, perpetuando noi stesse questa becera cultura. Non disperdiamo la nostra forza, la nostra grande sensibilità, la nostra capacità di combattere, abbiamo tante altre cose da dire, usciamo dal silenzio per dire cose migliori di questa. Spieghiamo, invece, al mondo che siamo in grado di trasformare in sfida, vincendola, la grande gioia di essere donne.
La danza è maestra di vita. E’ La danza che ti insegna i valori della passione, della dedizione, del sacrificio, del dolore e dell’amore. Se la ami realmente sarai in grado di dedicarle il tuo tutto: corpo, anima, cuore e tempo. Potrà capitare di avere ripensamenti e di temere che ogni sforzo sia vano, ma ogni volta che danzerai capirai di esserti sbagliato e tornerai a vivere.
La Danza costituisce un tipo di linguaggio particolare, perché non usa la parola come la poesia, né il suono come la musica, né tele o colori, creta o marmo come la pittura e la scultura.
Gli antichi hanno fatto della danza un’arte di ispirazione divina e di elevazione morale e civile; ma in ogni tempo, tutti i popoli l’hanno fatta elemento fondamentale della propria cultura. Nelle civiltà antiche indiane, cinesi ed egiziane, la danza voleva raffigurare il corso armonioso degli astri. I greci posero la danza sotto la protezione della musa Tersicore, facendone così un simbolo della propria cultura.
Per i romani, invece, assunse la forma di pantomima, continuando a trasformarsi fino alla depravazione. In seguito all’avvento del Cristianesimo, anche se inizialmente fu accolta nei riti all’interno delle chiese, poi fu condannata dalla Chiesa perché ritenuta una manifestazione peccaminosa dove protagonista assoluto era il corpo, quindi il male …
Dal medioevo in poi diviene una disciplina rigidamente regolata da leggi e ferree imposizioni. La danza popolare nel medioevo ha delle caratteristiche di follia ed è spesso legata all’idea della morte o del diavolo.
Per molti secoli la danza fu un fenomeno rivolto a tutti, dove non esisteva una vera e propria distinzione tra ballerini professionisti e semplici amatori.
Fu nel ‘600,in particolare in Francia, che nacque la prima accademia di danza. Il minuetto è la danza simbolo dell’epoca. Il ‘700 vide l’apparizione in scena delle danzatrici. L’invenzione del pianoforte portò le scuole di balletto a formare danzatori sempre più abili e dotati.
L’’800 è caratterizzato dal valzer, che rappresentò il desiderio giovanile ed inebriante, il ritmo espansivo, l’esuberanza del secolo.
Il balletto classico diventa una delle tendenze culturali più seguite ed amate.
La danza classica o “accademica” è una delle forme di danza teatrale più conosciute e sicuramente la più antica.
Bisogna aspettare il ‘900 perché la danza riacquisti il suo valore “primitivo”… Il ventesimo secolo, infatti, è un’officina in fermento di esperimenti sulla danza. La danza moderna si è sviluppata all’inizio del Novecento nel Nord Europa grazie a Rudolf Laban e Mary Wigman e negli Stati Uniti d’America, a partire dalle espressioni libere iniziate da Isadora Duncan e Ruth St. Denis, si è poi definita con varie tecniche grazie a Martha Graham, Doris Humphrey, Charles Weidman e José Limón. Martha Graham, in particolare, è stata la fondatrice di un nuovo alfabeto della danza moderna.
La danza contemporanea prosegue la rivoluzione attuata dalla danza moderna a favore di nuove espressioni corporee, che talvolta comprendono anche la recitazione di testi.
Tra le figure di spicco della danza del secondo Novecento, centrale è quella di Pina Bausch. La coreografa tedesca è stata la fondatrice, nella sua scuola di Wuppertal, della Tanztheater, il teatro-danza. Non si tratta di una nuova tecnica di danza, ma di un modo di interpretare la realtà personale, con gesti, movimenti e, novità assoluta, con suoni e parole, in cui il contributo dello stesso danzatore – o “danzattore” – diventa fondamentale.
Philippine Bausch, detta Pina, nasce a Solingen nel 1940 in un ambiente familiare non particolarmente dedito all’arte. Dopo aver frequentato da bambina una scuola di balletto, a quindici anni viene ammessa alla Folkwang-Schule di Kurt Jooss, uno degli esponenti principali della danza espressionista.
Grazie a una borsa di studio vola poi a New York per diventare ballerina professionista con il New American Ballet e con la Metropolitan Opera. Nel 1962 torna finalmente in Germania dove nel frattempo Jooss ha fondato il Folkwang-Ballet, del quale entra a far parte.
È proprio a questo punto che nasce in Pina un senso di profonda insoddisfazione nei confronti del suo ruolo di ballerina. Un anno dopo Hans Zullit, successore di Jooss nella direzione della Folkwang-Schule, affida alla giovane coreografa la direzione artistica del corpo di ballo della scuola, il Folkwang-Tanz-Studio.
Pina trascorre i primi anni Settanta dedicandosi alla ricerca: vuole trovare nuove possibilità espressive che possano avvicinare il teatro alla danza. Mentre il suo stile va piano piano definendosi, nel 1973 rinomina il corpo di ballo Wuppertal in Tanztheater Wuppertal sancendo così in modo definitivo la nascita del teatro-danza.
Al Tanztheater Wuppertal di Pina però, la tecnica classica non fu mai abbandonata. Il suo studio resta uno dei punti cardine nel training della compagnia, accanto alla tecnica moderna. I corpi dei danzatori sono temprati da anni di lavoro e disciplina, ma nelle improvvisazioni si ricerca la spontaneità, per poi sperimentarla sulla scena. La tecnica diventa quindi uno strumento, un mezzo d’espressione e non più un fine da perseguire.
I primi lavori sono ispirati a capolavori artistici, letterali e teatrali, come Le Sacre du Printemps (La Sagra della Primavera). Con Cafè Müller si assiste ad una svolta decisiva nello stile e nei contenuti. L’ambientazione e l’atmosfera struggente dello spettacolo richiamano l’infanzia della coreografa, gli anni passati ad osservare il mondo che, a piccole dosi, entrava ed usciva dal ristorante del padre.
Gli anni ’80 per la Bausch sono anni di sperimentazioni, i danzatori cambiano aspetto, si trasformano, divengono persone, indossano abiti quotidiani e fanno anche azioni comuni, concrete. Sono importanti i gesti, che vengono riprodotti, accelerati, decontestualizzati, scomposti, quanto la mimica facciale e anche la parola.
Il teatro di Pina è un teatro generoso, benevolo, largo, che fa danzare individui; per la prima volta non si parla di danzatori bensì di “persone che danzano”, un percorso caratterizzato dal suo ostinato porre domande, dalla sua curiosità profonda, dalla sete di comprendere prima ancora di muoversi, dal non volere dare sfoggio ma sostanza, dall’osservare a lungo ogni elemento della sua compagnia per poi realizzare un grande gioco, che è però un gioco serissimo, perché ruota intorno alle tematiche della solitudine, dell’infanzia, del bisogno d’amore.
Le prime opere sono animate da una critica alla società consumistica, mentre le opere più mature privilegiano l’approfondimento della visione intima della coreografa e dei suoi danzattori, chiamati direttamente ad esprimere le proprie interpretazioni dei sentimenti. I danzattori – definiti cosi dalla stessa Pina, poiché non erano semplicemente danzatori ma anche veri e propri attori – erano condotti alla creazione di pièces attraverso l’improvvisazione, generata dalle domande che la coreografa poneva loro.
La Bausch vuole che i danzatori esprimano attraverso il linguaggio del corpo i propri problemi, i propri bisogni e le proprie emozioni in modo tale che il pubblico possa specchiarsi nella rappresentazione che gli altri fanno di se stessi.
Il suo comincia ad essere chiamato il “Teatro dell’esperienza” e tutti i pezzi creati dopo il 1980 confluiscono in un medesimo discorso fatto di storie vere. Diventano elementi indispensabili delle complesse coreografie i materiali scenici, tra cui soprattutto sedie. Era un teatro-totale, capace di fondere linguaggi, stili, rimandi, citazioni, visioni. La Bausch si nutriva di domande, s’interrogava in continuazione sull’efficacia, sul senso e sul valore del suo lavoro, quasi come se non ne fosse mai soddisfatta. L’intransigenza delle domande che Pina Bausch poneva a se stessa, ai suoi ballerini e al pubblico sono stati la struttura portante di tutta la sua opera.
Spesso si trovò schiacciata e oppressa dalla critica, ma il suo forte stato d’animo le ha permesso di rubare da quelle situazioni una grande ironia e di riproporla sovente nelle sue coreografie, cosi come si nutriva dei gesti e delle anime dei suoi danzatori, restituendo loro un’immagine di assoluta libertà e rara forza.
Fu amata da Federico Fellini, che la diresse nel suo ”E la nave va“ (“una santa coi pattini a rotelle, una monaca severa che all’improvviso ti strizza l’occhio”, scrisse di lei il regista) e da Pedro Almodovar che in “Parla con lei” fa piangere il protagonista vedendo Pina ballare Café Müller.
Proprio Café Müller, del 1985, affascinò il regista Wim Wenders, che intraprese con la coreografa uno stretto rapporto di amicizia e collaborazione, che lo portò al progetto di un film, che stentava a venire alla luce in quanto Wenders pareva non trovare mai la chiave per tradurre su pellicola il gesto, il movimento, l’essere dell’attore-danzatore nello spazio scenico. Un documentario, la cui lavorazione iniziò nel 2008, ma fu segnato dalla morte improvvisa di Pina Bausch il 30 giugno del 2009. “Pina”, di Wim Wenders ha visto la luce nel 2011 e si è aggiudicato alcuni importanti premi, tra cui l’European Film Awards per il Miglior Documentario.
Nel 2007 la coreografa ottenne il Leone d’Oro alla Carriera, consegnatole con questa motivazione: “Pina Bausch è un’artista che ha segnato una nuova via originale all’espressione scenica del corpo danzante e parlante, influenzando non soltanto la danza contemporanea, ma anche le arti ad essa contigue, mutandone gli orizzonti. La Bausch è una coreografa che ha innovato il teatro, rendendolo più che mai fisico e musicandone la drammaturgia.”
Il 30 giugno 2009 Pina Bausch morì a 68 anni, per un cancro diagnosticato cinque giorni prima.
Pina è stata una delle più grandi coreografe mai esistite, ha permesso al mondo di conoscere il teatro-danza e di amarlo. Un’ artista unica, una rivoluzionaria, che è stata capace di fondere, in modo del tutto personale, il mondo della danza con quello del teatro.
La lezione di Pina Bausch rimane insuperata, ed ha cambiato l’estetica teatrale del secondo Novecento, come testimoniano le tante compagnie di teatro-danza nate in Europa e nel mondo, a partire dagli anni ’80 fino ad oggi.
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“Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che cosa fare. A questo punto comincia la danza, e per motivi del tutto diversi dalla vanità. Non per dimostrare che i danzatori sanno fare qualcosa che uno spettatore non sa fare. Si deve trovare un linguaggio – con parole, con immagini, atmosfere – che faccia intuire qualcosa che esiste in noi da sempre.” (Pina Bausch)
Giancarlo Giannini – Il rumore del cuore (Edgar Allan Poe)
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“Il rumore del cuore” o “Il cuore rivelatore” è forse il più famoso racconto di Poe. Fu pubblicato la prima volta in The Pioneer di James Russell Lowell, nel 1843. Leggendolo, trasmette già inizialmente la voglia di sapere come finisce, cosa succederà alla fine di tutto, una sorta di angoscia per capire e vedere il finale, in una suspense in continuo crescendo.
L’assassino uccide perché ossessionato da un occhio chiaro, che secondo lui lo segue dappertutto. Dopo l’uccisione si sente ancora perseguitato, ma da un rumore. Quando la polizia gli fa delle domande, inizialmente riesce a star calmo, se non fosse per quel rumore che continua a sentire …bum, bum, bum … il cuore della persona che ha ucciso.
Il modo in cui è fatto il racconto, con l’atmosfera che crea, tiene la suspense fino alla fine. Il rumore del cuore, che il lettore immagina, lo porta quasi a sentire l’angoscia provata dal protagonista. Quanto può essere maniacale un’ossessione e quanto un maniaco può essere preda delle sue ossessioni?
Ascoltando il monologo si capisce che sarebbe stato un delitto perfetto, se la pazzia non fosse, in fin dei conti, l’esasperazione dei sensi. E quindi l’ossessione ha il sopravvento. E provoca nelle orecchie dell’assassino le pulsazioni del cuore del vecchio smembrato, nascosto senza vita sotto al pavimento. E cosa sono allora questi battiti che aumentano in intensità, sino al parossismo di una confessione urlata dal colpevole a squarciagola di fronte ai poliziotti?
Il rumore è il tarlo che gli ricorda la sua colpa … è il rimorso per quello che ha fatto … e che non si può nascondere … è la vergogna che gli rimorde la coscienza. Lo spazio sotterraneo è quella parte del cuore, o della mente, del protagonista, dove pensava di poter nascondere la sua colpa, ma da dove in realtà viene gridato il suo delitto.
Poe sa tendere a un punto tale l’arco della lucida, ossessionante analisi dei meandri tortuosi della psiche umana, da conferire al racconto un tono altamente impressionante e drammatico. In molti, infatti, giudicano il testo come uno dei migliori mai scritti dall’autore americano. Certamente è uno dei più famosi.
Viverlo attraverso l’interpretazione di Giancarlo Giannini è un’esperienza straordinaria e indimenticabile.
Giannini è un grandissimo attore, un’icona del cinema italiano. Attore, regista, doppiatore, ma anche perito elettronico, inventore, fotografo, pittore e Re del Pesto, sì proprio il pesto per le trenette! Un uomo dalle mille sfaccettature, che forse non voleva diventare un divo, ma che, di fatto, è riconosciuto come uno dei mostri sacri del cinema italiano nel mondo.
Una figura eclettica ed esplosiva.
Non dimentichiamo che Giannini proviene dal Teatro, pochi attori hanno in Italia la sua capacità di passare da ruoli comici a drammatici e persino introspettivi, sfoderando una gamma di capacità attorali non comuni, dovuta al lavoro di scavo fatto con il teatro.
Protagonista, in questo caso, di un programma televisivo, “Racconti Neri”, trasmesso una decina di anni fa da FoxCrime, canale tematico di SKY Italia nel quale Giannini, con la sua voce inconfondibile e la straordinaria espressività e intensità del suo volto, ha fatto rivivere le più belle pagine della letteratura noir, frutto dell’ingegno e dalla fervida fantasia di scrittori del calibro di Edgar Allan Poe, Arthur Conan Doyle, Guy de Maupassant, Ambrose Bierce e Gustav Meyrink. Storie nere di delitti efferati, storie di uomini che incontrano i loro incubi, deliri di assassini che si intrattengono con le proprie vittime prima di tagliarne la gola, di assassini che si confrontano con i cadaveri delle loro vittime, di segreti che vengono a galla in circostanze misteriose attraverso visioni oniriche e spettrali.
I racconti e la voce di Giannini tratteggiano ed evidenziano le diverse sfumature che tingono di mistero l’apparente normalità dell’esistenza. La scenografia è spoglia ed essenziale, caratterizzata da luci radenti e ombre marcate, per lasciare il centro della scena alla narrazione e all’attore, senza ulteriori immagini che si frappongano alla potenza della sua gestualità e della sua voce.
Mai nessun attore italiano ha abbracciato la pienezza della recitazione fisica e vocale come Giancarlo Giannini. La voce, uno strumento d’arte che si estrinseca in modi alquanto diversi, un talento ed anche una passione, io credo, per Giancarlo Giannini, vera passione. Perché un altro artista che possa leggere con più efficacia, sono certa, non calcherà le scene mondiali, mai più.
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