L’odore caldo del pane che si cuoce dentro il forno.
Il canto del gallo nel pollaio.
Il gorgheggio dei canarini alle finestre.
L’urto dei secchi contro il pozzo e il cigolio della puleggia.
La biancheria distesa nel prato.
Il sole sulle soglie.
La tovaglia nuova nella tavola.
Gli specchi nelle camere.
I fiori nei bicchieri.
Il girovago che fa piangere la sua armonica.
Il grido dello spazzacamino.
L’elemosina.
La neve.
Il canale gelato.
Il suono delle campane.
Le donne vestite di nero.
Le comunicanti.
Il suono bianco e nero del pianoforte.
Le suore bianche bendate come ferite.
I preti neri.
I ricoverati grigi.
L’azzurro del cielo sereno.
Le passeggiate degli amanti.
Le passeggiate dei malati.
Lo stormire degli alberi.
I gatti bianchi contro i vetri.
Il prillare delle rosse ventarole.
Lo sbattere delle finestre e delle porte.
Le bucce d’oro degli aranci sul selciato.
I bambini che giuocano nei viali al cerchio.
Le fontane aperte nei giardini.
Gli aquiloni librati sulle case.
I soldati che fanno la manovra azzurra.
I cavalli che scalpitano sulle pietre.
Le fanciulle che vendono le viole.
Il pavone che apre la ruota sopra la scalea rossa.
Le colombe che tubano sul tetto.
I mandorli fioriti nel convento.
Gli oleandri rosei nei vestibuli.
Le tendine bianche che si muovono al vento.
Proprio qualche giorno fa commentavo un articolo di uno dei miei amici blogger affermando che non si può vivere da conigli astraendosi dalla realtà e che ad un certo punto bisogna “schierarsi”, intendendo dire con questo non solo a parole, ma con le azioni quotidiane … trovo netta e decisa anche qui questa affermazione, in questo articolo che condivido in ogni parola, che tocca profondamente la mia coscienza da un punto di vista umano e politico. Lo ribloggo con la speranza che tante altre persone lo condividano e che possa toccare positivamente tante altre coscienze. E’ profondamente vero: siamo NOI a permettere che imperi “questa cultura che continua a compiere le peggiori nefandezze”, tocca a NOI combatterla scegliendo con chiarezza ed onestà da che parte stare.
Tolto l’obbligo di fedeltà all’unione civile perchè nessuno si confonda scambiandola per matrimonio naturale, punto di partenza dell’italica sacra famiglia naturale.
Bisogna riconoscere che questo è un governo profondamente attento alle tematiche ecologiste.
Dove c’è natura, c’è la Trimurti Renzi-Alfano-Verdini. Ed hanno un senso dell’umorismo mai visto prima.
Quindi, invece di togliere l’obbligo di fedeltà nel matrimonio, come sarebbe giusto per un paese che vuole definirsi evoluto e maturo, si toglie alle unioni civili.
Davvero, queste scelte scatenano un’ilarità incontenibile perchè se non sono paradossali sono proprio solo grottesche.
Il bello è che, secondo chi ci governa, così facendo la famiglia è protetta. E’ il festival della farsa, altro che Sanremo.
Trionfa l’amore, come ha dichiarato Renzi e siamo tutti felici dell’happy-end.
Perchè la cosa disperante è che c’è pure chi ci crede.
Eh sì, perchè le unioni omosessuali, l’adozione omogenitoriale sono contronatura e pertanto minacciano la…
Al Musée Théodore Monod di Dakar fino al 30 marzo una retrospettiva dedicata alla fotografa camerunese Angèle Etoundi Essamba. Che da trent’anni racconta e svela l’universo femminile africano.
***
Angèle Etoundi Essamba
***
Riferendosi ad Angèle Etoundi Essamba, parlare di lunga carriera è più che appropriato. La splendida artista di origine camerunese, cresciuta a Yaoundé, la capitale del Camerun, e approdata a Parigi da bambina nel 1972, ha cominciato a fotografare prestissimo, distinguendosi subito per lo sguardo committed e sapientemente creativo e per la capacità di precorrere i tempi. Ha esposto in tutto il mondo, collezionato premi e messo insieme un curriculum di prima classe.
Un’artista di questo livello e di questa esperienza non avrebbe ragione di farsi sorprendere dall’emozione di fronte a una nuova mostra. Ma Force & Fierté: 30 années de photographie de la femme africaine, la retrospettiva che le dedica il Musée Théodore Monod di Dakar (ex Musée de l’Ifan) dal 18 febbraio al 30 marzo, non è solo un nuovo tassello che si aggiunge a una storia professionale di alto livello. Questo evento ha infatti un valore molto importante su scala panafricana: è la prima volta che un’istituzione museale del continente dedica a un’artista africana una mostra di queste proporzioni; è un omaggio senza precedenti.
Dice Essamba: «Esporre in Senegal, paese in cui ho realizzato molti dei miei lavori e che continua a essere per me una importante fonte d’ispirazione, è un grande onore. Mi considero molto fortunata e sono grata al presidente per avermi dato questa opportunità». È stato Macky Sall in persona a invitarla a Dakar, dopo avere visto ad Addis Abeba alcuni dei suoi lavori ed esserne rimasto impressionato. Era fine gennaio dello scorso anno. La capitale dell’Etiopia ospitava un vertice dell’Unione africana dedicato all’empowerment femminile, e la presidente Dlamini-Zuma le aveva chiesto di portare lì alcune sue opere.
Il soggetto privilegiato di Essamba è l’universo femminile. In particolare quello della sua terra, attraversato da figure forti e affascinanti, lontanissime dai cliché che popolano l’immaginario occidentale. «Considero importante spezzare lo stereotipo delle africane oppresse e passive e mostrare il loro volto vibrante, attivo, impegnato». Oggi, per fortuna, riflessioni di questo tipo sono ricorrenti. Trent’anni fa, quando la nostra ha iniziato a scattare, no. «La condizione delle donne in Africa è cambiata e in meglio. Pensiamo a paesi come il Rwanda, dove addirittura la metà dei parlamentari è donna. Ma rimane ancora molta strada da percorrere».
Le donne che ritrae non sono mai modelle professioniste. «Posso sceglierle da qualsiasi contesto, tranne che dalle agenzie fotografiche. Ho coinvolto nei miei lavori persone incontrate per strada, amiche, parenti… Ma sempre persone normali, vere». Le sue composizioni fotografiche, per quanto costruite e concettuali, sono sempre espressione dell’autenticità: raccontano una storia reale. Se così non fosse, perderebbero il loro valore testimoniale. Chi avrà la fortuna di essere a Dakar, nel periodo di apertura della mostra, potrà rendersene conto. Grazie anche a un impianto espositivo quasi pedagogico, che permette al visitatore di fare una sorta di viaggio attraverso il percorso artistico di Essamba.
***
200 immagini. Si va dalle donne forti e fiere (che danno anche il titolo all’esposizione), protagoniste delle serie Black and White e Colours, alle lavoratrici sfruttate nelle miniere, nelle fabbriche tessili e in altri luoghi topici della globalizzazione, che animano il più recente progetto Territories (quello che ha colpito Macky Fall). Nel mezzo ci sono i dettagli rarefatti e poetici del lavoro intitolato Beyond Colours, le rappresentazioni della natura (Mother Nature), della vita e della morte (Transition 1 e 2), e anni di ricerca artistica, esistenziale, etica. Anni di femminismo praticato e di destrutturazione dei pregiudizi.
A selezionare le circa 200 immagini che compongono la retrospettiva è stato Landry-Wilfrid Miampika, versatile intellettuale congolese di stanza a Madrid, esperto di arte contemporanea africana e già curatore di altre mostre dell’artista. «In questi trent’anni Angèle Etoundi Essamba ha seguito una linea artistica coerente e un’estetica duratura, un dato non comune a tutti gli artisti africani. Nel suo lavoro troviamo una nuova politica di rappresentazione del continente africano, lontana dai pregiudizi derivati dalle percezioni coloniali e neocoloniali. Troviamo una nuova rappresentazione, poetica, della donna nera africana e la messa in scena e la sublimazione del corpo nero su diversi versanti fotografici. Non credo sia necessario ricordare i pregiudizi che storicamente, nei secoli, hanno investito il corpo nero, la donna nera e l’Africa. La fotografia di Etoundi Essamba è una decostruzione artistica di molti di questi pregiudizi. E il suo contributo fotografico sulla visibilità della donna africana nera è notevole».
In tutti questi anni Essamba non si è limitata a fotografare. Ha dato vita a una Fondazione che si è occupata, in particolare, delle bambine di strada in Camerun. E poi, insieme con Céline Seror, ha avviato un progetto editoriale centrato sull’arte contemporanea africana al femminile, ossia fatta, vista e raccontata dalle donne. Si chiama IAM, Intense Art Magazine, e comprende un semestrale cartaceo, un sito web e l’organizzazione di eventi legati alle arti visuali e al design made in Africa o dalla diaspora.
Essamba: «Questa piattaforma rappresenta il logico prosieguo del mio lavoro artistico. La creatività delle africane è tanta e merita di essere celebrata nel mondo. Io sono convinta che arte e sviluppo procedano di pari passo: è molto importante che l’Africa riconosca e faccia conoscere i suoi talenti». Lo scorso ottobre, attraverso IAM, è stata organizzata a Douala una settimana di eventi e incontri dedicati in modo specifico all’arte e alla moda del Camerun. Il format, battezzato Iam Art & Fashion, ha avuto un grande successo e sarà replicato a maggio, in occasione di Dak’Art. Il focus ovviamente, in questo caso, sarà sul Senegal. Per la nostra Angèle sarà anche un modo di ringraziare il paese che ha scelto di celebrarla.
Il 12 febbraio si è celebrata la Giornata mondiale contro l’uso dei bambini soldato. L’occasione per fare il punto su un dramma che si rinnova. Specie in Africa dove il fenomeno è più radicato. L’istruzione è imprescindibile per salvare queste giovani vite.
di Elio Boscaini
Sono ancora migliaia i bambini-soldato sui campi di battaglia di tutto il mondo e soprattutto in quelli africani. Mentre milioni di bambini vanno a scuola, altri maneggiano armi. E il loro numero non diminuisce.
A parte Stati Uniti e Somalia, che non hanno ratificato la Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo, la maggior parte delle nazioni hanno firmato i testi contro l’utilizzo dei bambini nei conflitti armati. Un regolamento in vigore dal 2002. Eppure, sarebbero ancora 250mila i ragazzi e bambini, tra i 6 i 18 anni, implicati in una trentina di conflitti nel mondo.
***
***
Soldati convenienti
Questi giovani consumano meno cibo degli adulti, sono docili e influenzabili e sono combattenti: seminano mine, funzionano da messaggeri, fanno le spie, cucinano, sono schiavi sessuali, ecc. Alcuni si arruolano per sfuggire ai maltrattamenti o alla povertà, molti, però, sono arruolati di forza o rapiti. Il grosso delle truppe è formato dai maschi, che però non sono le sole vittime: le ragazze si battono come loro e rappresentano la metà dei bambini-soldato nel mondo.
Alcune si arruolano volontariamente per fuggire alla schiavitù domestica o a un matrimonio forzato. Le bambine-soldato sono spesso vittime di stupro, tratta, sfruttamento, mutilazioni genitali, e rischiano spesso la maternità indesiderate. Di recente inoltre, come leggiamo abitualmente dalla cronaca, vengono anche trasformate in kamikaze, come succede nella regione attorno al lago Ciad dove agiscono gli estremisti islamici di Boko Haram.
***
***
Fenomeno africano e mondiale
L’Africa è il più grande “reclutatore” di bambini-soldato. È là che sono più numerosi: Mali, Uganda, Centrafrica, Rwanda, Somalia, Sud Sudan, sono solo i contesti più conosciuti. Soprattutto nella regione dei Grandi Laghi. In Sud Sudan, secondo l’Onu, sarebbero 12 mila i bambini-soldato che si battono fra le fila dell’Esercito popolare di liberazione del Sudan e dei gruppi ribelli nel paese. Alcuni hanno combattuto più di 4 anni e non hanno mai visto una scuola.
Anche l’Europa conosce i suoi bambini-soldato, quelli che sono stati implicati nei gruppi armati in Cecenia e in Russia. In Sudamerica, è la Colombia a detenere il triste primato: 14 000 ragazzi sarebbero stati ingaggiati nei ranghi dei gruppi politici armati e dei gruppi paramilitari sostenuti dall’esercito. In Medioriente, bambini-soldato sono presenti: in Israele e nei Territori palestinesi occupati, in Iraq e in Iran. In Siria, tutti i gruppi ribelli, esercito nazionale compreso, li annoverano fra le loro fila.
Anche il sedicente Stato islamico diffonde video in cui appaiono bambini-soldato. Alcuni avrebbero solo 10 anni: sarebbero un migliaio e una novantina sarebbero già stati uccisi. In alcuni dei numerosi video pubblicati dal gruppo si è assistito anche ad atti macabri in cui, i “leoncelli del Califfato”, come li chiamano i jihadisti adulti, intervengono in una messa in scena in cui sgozzano o sparano alla testa degli ostaggi.
***
***
La guerra, il nemico più grande
I conflitti armati che insanguinano il mondo non hanno mai fatto tante vittime civili come in questi ultimi decenni. Esse rappresentano, infatti, il 90% dei morti. E di questo 90%, la metà sarebbero proprio bambini. Che siano soldati o meno, l’impatto delle guerre sui più piccoli è considerevole. In un decennio, più di due milioni di minori sono stati uccisi; 6 milioni almeno sono stati feriti e di questi una buona parte soffre un’invalidità permanente
Drammatico è anche l’impatto psicologico. I piccoli che si ritrovano di fronte alla decomposizione della loro vita sociale, agli stupri e alle violenze sulle loro sorelle o sulla mamma, sono psicologicamente traumatizzati a vita.
Anche i bambini che riescono a sfuggire alla guerra, non sono molto da invidiare. Sarebbero 20 milioni nel mondo quelli rifugiati nei paesi vicini o sfollati nel proprio paese. Peggio ancora, negli ultimi dieci anni, un milione sono quelli rimasti orfani o che sono stati separati dalla loro famiglia.
***
***
Istruire per prevenire
È da sottolineare che il reclutamento dei bambini-soldato avviene anche e soprattutto a seguito di un indottrinamento che avviene nei villaggi di campagna tra ragazzi spesso analfabeti. Dunque, oltre alla lotta alla povertà, alle sanzioni contro i gruppi armati e alla lotta contro il commercio d’armi, è l’educazione ad essere essenziale per salvare queste giovani vite spezzate dalla violenza e dalla brutalità. Per la prevenzione, diventa importante organizzare programmi scolastici che formino partendo dal concetto di pace così da contrastare il proselitismo dei ribelli. La pace va governata con le armi del buon senso, consegnando cioè ai ragazzi e alle ragazze “penne e quaderni”. Solo l’istruzione può sperare di salvarli.
di S. Grandi – G. Curreri – L. Chiaravalli – S. Grandi
Un giorno ti dirò
Che ho rinunciato alla mia felicità per te
E tu riderai, riderai, tu riderai di me
Un giorno ti dirò
Che ti volevo bene più di me
E tu riderai, riderai, tu riderai di me
E mi dirai che un padre
Non deve piangere mai
Non deve piangere mai
E mi dirai che un uomo
Deve sapere difendersi…
Un giorno ti dirò
Che ho rinunciato agli occhi suoi per te
E tu non capirai, e mi chiederai… «perché»?
E mi dirai che un padre
Non deve piangere mai
Non deve arrendersi mai
Tu mi dirai che un uomo
Deve sapere proteggersi…
Un giorno mi dirai
Che un uomo ti ha lasciata e che non sai
Più come fare a respirare, a continuare a vivere
Io ti dirò che un uomo
Può anche sbagliare lo sai
Si può sbagliare lo sai
Ma che se era vero amore
È stato meglio comunque viverlo
Ma tu non mi ascolterai
Già so che tu non mi capirai
E non mi crederai
Piangendo tu
Mi stringerai
***
***
Gli Stadio: «Abbiamo vinto cantando l’amore tra padri e figli»
di Eugenio Arcidiacono
Intervista a Gaetano Curreri, leader della band che ha vinto il Festival con la canzone “Un giorno mi dirai”, in cui un papà immagina di scrivere alla sua bambina diventata grande. Una ballata rock che ricorda quelle che Curreri ha scritto per Vasco Rossi: “Da quarant’anni è il mio migliore amico”.
Un emozionatissimo Gaetano Curreri ha rivelato che “Un giorno mi dirai”, la canzone con cui gli Stadio hanno trionfato a Sanremo, sia pure con un testo e un arrangiamento differenti, fu scartata l’anno scorso.
E invece ha sbaragliato la concorrenza dei favoriti Caccamo/Iurato la commovente lettera che un padre immagina di scrivere alla sua bambina per quando sarà grande e soffrirà le prime pene d’amore. «Il padre le dice di non rinunciare mai all’amore, anche se può essere fonte di grandi sofferenze. Sa che lei non lo capirà, ma lo abbraccerà lo stesso. Io non sono padre, ma ho molti amici che hanno vissuto storie simili», ci ha raccontato.
Non c’era miglior modo per celebrare i 50 anni di carriera come Patty Pravo e i Pooh. Ma se i Pooh alla fine del 2016 si scioglieranno, la band guidata da Gaetano Curreri è ancora in piena attività: «Sanremo rappresenta una bellissima vetrina per far conoscere la nostra musica, forse l’ultima rimasta in Tv per artisti come noi con una storia alle spalle», dice il cantante. «L’alternativa sarebbe fare comparsate in programmi per cuochi o dove sei costretto a fare il “simpatico”. Non ci va».
La canzone descrive un genitore che ammette le sue fragilità. «Sono cresciuto con un modello di padre che stava sempre in cima a una piramide, pronto a giudicarti. Adesso, vedo all’opposto genitori che danno pacche sulle spalle ai figli per sentirsi giovani come loro. Per fortuna ci sono anche padri come quello della canzone, figure autorevoli, ma che sanno ammettere le proprie debolezze, perché solo così possono capire quelle dei figli».
Un giorno mi dirai è contenuta in Miss Nostalgia, il nuovo album degli Stadio che è uscito il 12 febbraio. «Quando ho iniziato a scriverlo», continua Curreri, «ho ripensato a una canzone che avevo scritto con Lucio Dalla nel 1983 e che iniziava così: “Noi come voi, aspettando che il sole smonti, diciamo guarda che bei tramonti”. Io aspetto sempre che arrivi la sera per ammirare il tramonto. È il momento più importante della giornata perché sento il mio animo riempirsi di speranza, la speranza che il domani sarà migliore ». Mentre la nostalgia che dà il titolo all’album «per me significa ripensare alle cose belle che mi sono successe, ma senza rimpianti. Un mio amico dice sempre: “Che belli quei tempi! Ma sono bellini anche questi…”».
C’è un ricordo di cui il cantante ha particolare nostalgia: «Quando sono entrato per la prima volta a Punto Radio, la radio che Vasco Rossi aveva fondato a Zocca. Sentivo quello che poi si è avverato: che insieme avremmo fatto grandi cose. Ricordo la prima volta in cui lui mi fece ascoltare con la chitarra Albachiara. Io avevo un pianoforte in affitto e con quello ho composto l’introduzione della canzone. Poi mia mamma me l’ha comprato e ce l’ho ancora a casa».
Da quarant’anni Vasco è il suo migliore amico: «Ci completiamo a vicenda: a me basta passare un pomeriggio con lui per caricarmi di un’energia che poi mi dura per una settimana; mentre lui stando con me si tranquillizza, ricupera un po’ di calma interiore. Lui ha una vera passione per la filosofia. Di recente ha letto tutti i libri della Ricerca del tempo perduto di Proust. Mi fa delle vere lezioni in cui riesce a spiegarmi con parole semplici concetti complicatissimi».
Tra le tante canzoni che hanno scritto insieme, Vasco il testo e Curreri la musica, la più bella forse è Un senso, dove lui canta: «Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha». Da credente, Curreri racconta che «ci siamo sfidati su quel testo e alla fine ci siamo trovati d’accordo. Io sono cresciuto con la fede cattolica che mi ha trasmesso mia madre, ho frequentato l’oratorio e sono rimasto ancorato a tutto questo. Anche Vasco ha avuto un percorso simile, solo che lui è molto più critico di me. Nella fede come in tutto il resto è uno che ama scompaginare le cose. Ma penso che entrambi, pur da posizioni diverse, siamo, come di recente ha detto papa Francesco a proposito dei re Magi, uomini alla ricerca di Dio».
Nella foto in alto una donna mostra una lametta che viene utilizzata per praticare i riti d’iniziazione che provocano le Mgf.
A Mombasa, Kenya, giugno 2015. (Fonte: Time/Ivan Lieman – Barcroft Media).
***
Donne ferite per sempre
Rapporto Unicef sulle Mgf
di Viky Charo (dal Kenya)
La mutilazione genitale femminile è una pratica ancora molto diffusa nel mondo e soprattutto nel continente africano. Sono almeno 200 milioni le donne e bambine che le hanno subite in 30 paesi di Asia e Africa. Alcune nazioni africane stanno facendo passi avanti, ma l’eliminazione di questo sopruso resta lontana.
Nel mondo, attualmente, almeno 200 milioni di donne di ogni età sono state sottoposte alla mutilazione genitale femminile (mgf) in 30 diversi paesi del mondo. Oltre la metà di loro vive in tre paesi: Indonesia, Etiopia ed Egitto. Il paese asiatico registra il record negativo, con più di 60 milioni di donne mutilate. I dati provengono da un rapporto dell’Unicef – Female genital mutilation/cutting: a global concern – pubblicato il 6 febbraio scorso, Giornata internazionale Onu per la tolleranza zero alle mgf.
Nonostante la concentrazione in questi tre paesi, questa pratica è ormai diffusa in varie parti del mondo – tra cui anche Europa, Australia, Nord e Sud America -, anche se l’Africa rimane il bacino maggiore. Il 44% delle donne sottoposte ad amputazione genitale, ha un’età che va da poche settimane a 14 anni e si concentra in Gambia (56%), Mauritania (54%) e Indonesia, dove circa la metà delle ragazzine sotto gli 11 anni ha subito la mgf. Sempre secondo i dati forniti dal rapporto, i paesi in cui è prevalente in donne tra i 15 e i 49 anni sono, invece, Somalia (98%), Guinea (97%) e Djibuti (93%).
Segnali positivi si registrano, invece, in nazioni che hanno cominciato a lottare contro questa consuetudine: negli ultimi 30 anni la mgf su ragazze tra i 15 e i 19 anni è diminuita del 41% in Liberia, del 31% in Burkina Faso, del 30% in Kenya e del 27% in Egitto. Questo grazie a campagne di sensibilizzazione, monitoraggio e leggi che criminalizzano la circoncisione femminile.
Dal 2008, oltre 15.000 comunità distribuite in 20 paesi, ne hanno annunciato ufficialmente l’abbandono, spinti anche da un aumento della disapprovazione popolare, in particolare tra i giovani uomini. In Ghana dal dicembre scorso, chi opera la mgf rischia fino a tre anni di carcere e in Kenya esiste anche una rete di apparati governativi e non che si occupa di prevenire, sostenere le vittime e denunciare gli artefici.
Rispetto a trent’anni fa, una femmina ha oggi il 33% di possibilità in meno di essere mutilata, ma l’eliminazione totale di questo abuso entro il 2030 (in base ai nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu), appare ancora una meta lontana. “Se l’incremento della popolazione continuerà con i ritmi attuali – evidenzia il rapporto – il numero di ragazze e donne che subiranno la mgf è destinato ad aumentare in modo significativo nei prossimi 15 anni. Tutti noi, governi, operatori sanitari, leader di comunità, genitori e famiglie, dobbiamo accelerare gli sforzi per eliminarla”.
***
Giovani ragazze kenyane
***
Una guerra, questa, che mette in prima linea i governi, responsabili della raccolta e della pubblicazione di statistiche nazionali, tassello fondamentale per conoscere l’entità del problema e combatterlo a livello locale. Ma, finora, evidenzia Unicef, sono solo 30 i governi che hanno dato piena adesione a questo progetto.
Fonte: nigrizia.it
Martedì 09 Febbraio 2016
***
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha classificato le mutilazioni in 4 tipi differenti, a seconda della gravità degli effetti:
1.Circoncisione (o infibulazione al-sunna): è l’asportazione della punta della clitoride, con fuoriuscita di sette gocce di sangue simboliche; 2.Escissione del clitoride al-wasat: asportazione della clitoride e taglio totale o parziale delle piccole labbra; 3.Infibulazione (o circoncisione faraonica o sudanese): asportazione della clitoride, delle piccole labbra, di parte delle grandi labbra vaginali con cauterizzazione, cui segue la cucitura della vulva, lasciando aperto solo un foro per permettere la fuoriuscita dell’urina e del sangue mestruale; 4.Il quarto gruppo comprende una serie di interventi di varia natura sui genitali femminili.
Queste pratiche sono eseguite in età differenti a seconda della tradizione: per esempio in Somalia si praticano sulle bambine, in Uganda sulle adolescenti, mentre in Nigeria veniva praticato sulle neonate.
Tutte queste mutilazioni ledono gravemente sia la vita sessuale sia la salute delle donne, ed è a tutela di queste ultime che si adoperano i movimenti per l’emancipazione femminile, soprattutto in Africa.
Le mutilazioni genitali femminili hanno gravissime conseguenze sul piano psicofisico, sia immediate (con il rischio di emorragie a volte mortali, infezioni, shock), sia a lungo termine (cisti, difficoltà nei rapporti sessuali, rischio di morte nel parto sia per la madre sia per il nascituro).
Effetti dell’infibulazione
I rapporti sessuali, attraverso questa pratica, vengono impossibilitati fino alla defibulazione (cioè alla scucitura della vulva), che in queste culture, viene effettuata direttamente dallo sposo prima della consumazione del matrimonio. Le puerpere, le vedove e le donne divorziate sono sottoposte a reinfibulazione con lo scopo di ripristinare la situazione prematrimoniale di purezza. I rapporti diventano dolorosi e difficoltosi, spesso insorgono cistiti, ritenzione urinaria e infezioni vaginali. L’asportazione totale o parziale degli organi genitali femminili esterni è praticata con lo scopo di impedire alla donna di conoscere l’orgasmo derivante dalla stimolazione del clitoride, riservandolo al solo atto sessuale.
Ulteriori danni si hanno al momento del parto: il bambino deve attraversare una massa di tessuto cicatriziale e reso poco elastico a causa delle mutilazioni; in quel momento il feto non è più ossigenato dalla placenta e il protrarsi della nascita toglie ossigeno al cervello, rischiando di causare danni neurologici. Nei paesi in cui è praticata l’infibulazione, inoltre, è frequente la rottura dell’utero durante il parto, con conseguente morte della madre e del bambino.
Non trovo parole per esprimere il mio profondo disgusto per queste pratiche criminali.
Non aggiungo nulla … Mi sembra che il tutto si commenti da solo …
Un giorno un brav’uomo se ne andava in groppa al suo asinello e, passando accanto a un giardino, vide un ramo che attraverso la cancellata si spenzolava sul sentiero, ed era carico di magnifiche pere. Vederle e averne voglia fu la stessa cosa. Alzandosi un po’ sulla sella, l’uomo afferrò il ramo con una mano, e con l’altra afferrò la pera più bella. Ma non fece in tempo a coglierla, perché l’asino, ombroso, chissà di che cosa si spaventò e scappò via al galoppo. Per non cascare, l’uomo dovette afferrarsi con tutte e due le mani al ramo.
Mentre se ne stava appeso a quel modo, sgambettando, accorse il giardiniere e gli gridò: – Ehi, tu, che cosa fai sul mio albero?
– Amico mio, non mi crederai: sono caduto dall’asino!
Il giardiniere non volle credere che si potesse cadere all’insù. Prese un bastone e gliene diede né tante né poche.
State attenti anche voi: c’è modo e modo di cadere dall’asino.
Nel silenzio della notte,
io ho scelto te.
Nello splendore del firmamento,
io ho scelto te.
Nell’incanto dell’aurora,
io ho scelto te.
Nelle bufere più tormentose,
io ho scelto te.
Nell’arsura più arida,
io ho scelto te.
Nella buona e nella cattiva sorte,
io ho scelto te.
Nella gioia e nel dolore,
io ho scelto te.
Nel cuore del mio cuore,
io ho scelto te.
Questo blog non può essere considerato un prodotto editoriale. Le immagini inserite sono tratte in massima parte dal Web; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d'autore, vogliate comunicarlo e verranno subito rimosse.